Trionfo Caja. Con quale accompagnamento musicale è ancora da studiarsi anche se il referendum indetto da pallacanestrai in genere (dirigenti, atleti e tifosi) pare propendere per quello impareggiabile dell’Aida.
Qualcosa, comunque, valido a soffocare la tristezza di quell’incomprensibile marcia funebre che ebbe ad accompagnare il suo immediato ma, peraltro, erroneamente messo in atto esodo dell’ultima presenza varesina.
Del resto il Caja di oggi non è un’inspiegabile scoperta in fatto di capacità, anzi proprio qui, nella sua precedente edizione varesina si era fregiato di fior di encomi, che non potevano certo giustificare l’addio a fine stagione.
Il mistero è rimasto anche l’unica probabile ragione del divorzio che pare fosse da imputare a questioni economiche.
Va bene! Anche queste vanno tenute in considerazione ma focalizzando meglio le conseguenze di una altra scelta tecnica di valori.
Così non è stato perché si è pescato un po’ nel mucchio con fior di risultati negativi venuti a galla. Caja ha cercato di fare posto al gioco del basket con la sua esperienza quella stessa – si diceva – che aveva brillato nella precedente presenza varesina. Tra l’altro – sempre senza bacchetta magica – ha messo in atto una regola del basket abbastanza semplice ma necessaria per una formazione il cui difetto principale era quello di essere completamente slegata incapace di trovare un complesso.
In questi casi, ovviamente, se tutti sono bravi non occorre più niente; non si ha una squadra ma uno squadrone (per quanto ci riguarda Ignis e Mobilgirgi) ma se le capacità rientrano – magari anche non del tutto – nella norma occorre trovare almeno un paio di uomini base attorno ai quali si abbia a ruotare facendo gruppo.
Questo è, in definitiva, quello che ha fatto Caja. Nessun miracolo ma, chiara capacità e altrettanto chiara esperienza.
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