La cosa che conta è voler bene a quelli che devi amare. Voler bene non è uguale ad amare quelli che “devi” amare. Voler bene vuol dire amare gratuitamente. Gratuitamente vuol dire non pretendere un ritorno di bene. È dare il bene senza interesse, senza aspettarti un ritorno. Senza aspettarti un “riverbero” su di te di quello che hai donato. L’hai donato? Sì! Basta, è andato. Ha aiutato? Si! Bene. Non ha aiutato? Pazienza. Tu hai dato: è quello che conta. Tu hai voluto bene, hai amato. Se tu non hai dato, non hai amato, non hai voluto bene.
Il problema di questo confabulare è nella parola “devi”. Questo ragionamento s’ingarbuglia attorno a questo “devi” perché è il termine che può togliere la gratuità al voler bene. Si deve superare il vocabolo “dovere” e sapergli dare un altro significato, più ampio. Quale? Non so bene, supera le mie capacità. Amare perché ami amare? Amare perché sei generoso e vuoi far felice il prossimo? Amare perché sarebbe l’amore che supera ogni male? Forse.
Purtroppo paradossalmente puoi voler male a quelli che invece devi amare. Non è facile essere perfetti nel voler bene, nell’amare, d’accordo, ma è spaventoso donare il male e talvolta in misura quasi infinita a persone che dovresti amare… e questo accade spesso.
È quello che riviviamo, rimeditiamo annualmente nella liturgia quaresimale, ma anche continuamente ripensiamo nelle nostre preghiere giornalmente, ovviamente se sappiamo pregare. Abbiamo ucciso quello che invece avremmo dovuto amare in misura infinita. Ucciso poi in modo perverso, crudele costringendolo a patire bevendo goccia a goccia la sofferenza fisica e morale. Far soffrire uno che deve morire vuol dire credere nell’esistenza dell’anima. Perché? Se ti sto uccidendo perché farti soffrire se poi non ci sarai più? Io ti faccio soffrire così ti ricorderai le sofferenze vissute che così saranno sempre con te. Tu morirai e porterai con te tutto il dolore che ti ho dato, in modo che ti seguirà nell’eternità e così soffrirai per l’eternità. Il proposito, se così fosse, è veramente perverso, ma dice che i torturatori credevano nell’al di là, nell’esistenza dell’anima, nell’esistenza di un’altra vita dopo questa.
È ovvio che è tutto un ragionamento ipotetico. Poteva essere solo il gusto di dar sfogo a personalità perverse e crudeli che godevano nel veder soffrire.
Ciò che è grande, infinitamente misteriosa è la Resurrezione, che è molto difficile da comprendere per noi legati alla concretezza delle cose percepite dai nostri sensi. Non l’hanno capita gli artisti del passato, i teologi, i pensatori dei tempi passati e i cristiani dei nostri giorni.
Lui sarebbe venuto per amore infinito nei nostri confronti. Noi l’abbiamo disprezzato, gli abbiamo sputato addosso. Noi, come i suoi discepoli che, dopo averlo visto morire e ricomparire, dopo un evento si grande, sognavano ancora un trionfante e concreto governo terrestre di Israele e solo dopo molte prove spirituali compresero il significato della sua venuta sulla terra. La storia ci dice che nei secoli non sono state capite le sue parole, i suoi concetti, il suo amore; anzi troppo spesso questo è stato sfruttato politicamente per avere il potere (terreste) temporale nelle mani.
Ma perché questi pensieri nelle fragili, superficiali e spesso fatue note che noi stiliamo?
Perché il sogno dell’amore è dentro di noi e quindi dovremmo capire che Lui è risorto dentro di noi: ha lasciato vuoto il sepolcro dove era stato messo uscendo silenziosamente. Ha lasciato un vuoto nel sepolcro stesso per venire, sempre silenziosamente, a riempire il vuoto che è dentro di noi! È questa la logica della Resurrezione? È risorto per prendere il nostro cuore con il suo amore e insegnarci ad amare. Tutto per un dono d’amore che noi non sappiamo comprendere, vivere, ripetere, corrispondere.
Va bene! Ma se uno non ci crede? Per lui non c’è né la resurrezione né tutti i concetti sopra detti, tranne uno: il desiderio del bene, il desiderio dell’amore che in lui non sono legati a emotività fideiste, ma sono assolutamente e squisitamente logici. Chi non crede di norma è razionalmente capace di una grande dote di rettitudine e rispetto per il prossimo, superiore spesso a quella dei credenti. Perché? Lui sa che la vita è unica e quindi richiede il massimo rispetto sia per sé che per gli altri, mentre talvolta i credenti in “un al di là” sono quelli che commettono cose nefande, come ci dice l’esperienza della storia e dei nostri giorni.
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