A ciascuno il suo viene da dire a margine delle cronache e fantacronache che hanno accompagnato il passaggio di proprietà del Milan da Silvio Berlusconi al tycoon cinese Yonghong Li capo fila di un gruppo internazionale non ancora del tutto ben identificato e valutato nella sua effettiva forza finanziaria. E per questa non trascurabile ragione un cambio di mano capace di generare qualche ansia supplementare nei milanisti di lungo e lunghissimo corso i quali – io tra questi – non possono non rimarcare come giornali, televisioni, radio, siti web e quant’altro abbiano celebrato l’evento come se la storia del Milan AC. fosse iniziata nel luglio 1986 e non la bellezza di 87 anni prima, al limitare dell’800 su un campetto della periferia milanese e con sede sociale nella Fiaschetteria toscana di via Berchet.
D’accordo, la storia della squadra con Silvio regnante ha conosciuto una lunga stagione (31 anni) di molte luci (29 trofei in bacheca) e di poche ombre, ha messo in campo allenatori e giocatori che hanno incantato la platea internazionale (5 Champions vinte), ha conquistato legioni di tifosi con un gioco quasi sempre scintillante che raccoglieva consensi pure sulle sponde avverse e arruolava stuoli di abbonati garanti di denaro fresco e contante. Onore al merito berlusconiano ci mancherebbe e in alto i cuori per un futuro in cui il Milan, ma anche l’Inter (la cuginanza conta…), possano riportare il calcio giocato sotto la Madonnina più in alto di quello bianconero praticato sotto la Mole. Detto questo resto dell’opinione che la storia, sia quella “piccola” del calcio sia quella “grande” di un Paese, di una città, di un partito, di una persona vada ricordata senza rimozioni di sorta. Come ha fatto il più prestigioso dei quotidiani francesi, Le Monde, dando voce a un milanista inatteso, imprevisto ma fervente, il “cattivo maestro” Toni Negri, il professore filosofo noto alle cronache italiane per ben altre ragioni. Che col calcio non hanno nulla da spartire.
Difficile però dargli torto quando dice all’intervistatore che “il vero Milan AC, è Rocco e i suoi fratelli (film di Visconti del ’60) ovvero l’insieme di persone qualunque, di operai, di immigrati meridionali, di milanesi purosangue – e anche il grande Nereo Rocco, lo storico allenatore dei rossoneri guidati per ben tre volte: dal 1961 al ’63,dal 1967 al ’74, dal 1975 al 1977)”.
Gli anni di alcuni scudetti e delle prime due Coppe dei Campioni (1963 -1969) segnati dalla classe senza limiti di Gianni Rivera, dall’eleganza difensiva e talvolta masochista di Cesare Maldini, dall’applicazione operaia di Giovanni Trapattoni, dalla dedizione umile di Giovanni Lodetti. E ancora prima il Milan anni ’50 degli svedesi (Green, Nordahl, Liedholm) rilevati poi da campioni straordinari come l’uruguagio Juan Alberto Schiaffino celebrato persino in una splendida canzone di Paolo Conte, Sudamerica, e il brasiliano Dino Sani di passo felpato, ma sempre nel vivo del gioco.
Ancora non esisteva il centro sportivo di Milanello – costruito nei sessanta dall’editore presidente Angelo Rizzoli – e la squadra faceva spesso tappa al Palace di Varese per il ritiro prepartita. Al Franco Ossola veniva fatta l’ultima rifinitura, come si dice in gergo. Accadeva, in particolare nella tarda primavera, ai campioni rossoneri di mischiarsi senza problemi con gli studenti – atleti che preparavano i campionati provinciali di atletica leggera. A rubare la scena era soprattutto Nils Liedholm, un decatleta prestato al grande calcio, che di buon grado si univa ai mezzofondisti in erba delle scuole cittadine producendosi, fra l’ammirazione generale, in memorabili allunghi. Non disdegnava neppure il disco e il peso quel formidabile fuoriclasse che con la sua sapienza sportiva e il suo acume tattico avrebbe influenzato negli anni a venire il pensiero calcistico internazionale. Quando stavano al Palace capitava di incrociarli, di sabato pomeriggio, anche al cinema. All’Impero o al Politeama dove con maggior frequenza si proiettavano pellicole western.
Diciamo che senza questo ruspante e mitico Milan dell’età di mezzo del secolo scorso non ci sarebbe stato quello berlusconiano di fine anni ottanta. Furono i campioni di cui abbiamo accennato ad affascinare il giovane Silvio e il ricordo della loro formidabile epopea a spingerlo all’acquisizione di un Milan nel bel mezzo di una lunga traversata del deserto punteggiata di delusioni sul campo, due retrocessioni in B, passaggi di proprietà a dir poco avventurosi. Con un’unica eccezione lo scudetto della stella (1979) con Liedholm allenatore. La magia milionaria e visionaria di Berlusconi ha fatto il resto. Anche se Peppino Prisco, ironico e beffardo vice presidente neroazzurro, insinuava che la fortuna del Milan fu di essere in crisi proprio nel momento in cui il rampante immobiliarista di Milano2 giudicava decisiva, per la promozione della propria immagine, la proprietà di un vettore calcistico capace di veicolarla al meglio in patria e in Europa. A parti invertite – diceva malignamente l’avvocato – Berlusconi non avrebbe esitato ad acquistare l’Inter e a proclamarsi neroazzurro da sempre e per sempre.
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