Tra le tante ambiguità e contraddizioni del Movimento Cinque Stelle, quella del rapporto tra eletti ed elettori, dirigenza politica e base elettorale, è la più rilevante e critica. La direzione politica, dottor Jekyll, è prevalentemente orientata a sinistra-estrema sinistra-sinistra radicale, con tocchi da new age e movimentismo ecologista (al netto di casi folcloristici da “stato nascente”: scie chimiche, sirene, vaccini, ecc.). Mentre la base elettorale, mister Hyde, è prevalentemente orientata a destra, con tocchi di estrema destra e di qualunquismo irrazionalista.
Che la “testa” fosse dall’origine orientata a sinistra, lo dicono le biografie, i discorsi e gli slogan della maggior parte dei leader. Non solo i trascorsi cultural-professionali (apartitici) di Grillo e Casaleggio, ma particolarmente quelli di Di Maio, Di Battista, Fico, Toninelli e altri maggiorenti M5S che hanno prodotto la linea nazionale. Rispetto alla quale poco conta la contraddizione destrorsa e romana (Lombardi-Taverna-Raggi e soci) o gli opportunismi tattici di schieramento destrorso in Europa (alleanza col nazionalista Farage). E gli infuocati discorsi dei leader nazionali s’infiammano sempre a criticare l’antagonista Pd da sinistra, “incriminandolo” di tradimenti ideali, etici, culturali, pratici.
Che però la “pancia” sia orientata soprattutto a destra, lo capisci parlando con la gente o leggendo sui social media nei periodi di campagna elettorale: ti sembrano fascio-leghisti, e simpatizzano M5S. Ma lo dicono anche sondaggi e statistiche, da ultimo: la rilevazione di Ilvo Diamanti per Demos & Pi, che sonda gli elettori Cinque Stelle trovandoli per oltre 2/3 “vicini” ai partiti di centrodestra, e per circa 2/3 “vicini” alla destra. Mentre gli elettori di centrodestra sono “vicini” al Movimento Cinque Stelle per quasi il doppio di quelli di centrosinistra. E la “pancia” non si pone problemi comparativi, perché per metà s’è convinta di essere “esterna” agli altri, a ciò che c’era prima del M5S, ai “partiti”: né di destra né di sinistra né di centro, coltiva il sogno emozionale d’essere tutta un’altra cosa, per sentirsi confusa in un’unità indistinta a protestare insieme. Così la “testa” può continuare a tenere insieme tutto, sottacendo le contraddizioni e facendo del M5S un trasversale soggetto politico “pigliatutti”.
Come nell’apologo fantasy di R.L. Stevenson, Jekyll-vertice e Hyde-popolo contrappongono mente a viscere, ragione a istinto, umanità a animalità. Jekyll-testa parla e argomenta coi toni della razionalità, seppure a voce alta ed enfatica, contestando e impostando criticamente contro gli avversari politici, in primis il Partito democratico, cui contende la primazia nel consenso popolare e per il prossimo governo del Paese. Hyde-pancia borbotta, rumoreggia, bofonchia flatulenze, mugugna improperi e trasuda odio a profusione nell’inferno general-generico dell’antipolitica: governo ladro che piova o splenda il sole, siamo tutti rovinati per i politici corrotti, sprofondiamo nel baratro e via catastrofando.
Non che la testa dica il contrario. Jekyll e Hyde fanno comunque un corpo solo, e lo stesso atteggiarsi di M5S a non-partito che s’avvale di non-statuto, rifiuta il finanziamento pubblico e dimezza gli stipendi dei parlamentari, è in stretta continuità antipolitica con la sua base. Ma lo strabismo politico è evidente. Tutte le motivazioni di protesta della base elettorale nascono da considerazioni qualunquistiche e di destra, da un odio cieco e indistinto verso la casta dei politici (esclusi, per ora, i Cinque Stelle), onnipotenti e onnicolpevoli. Non c’è lavoro perché lo Stato non fa nulla e i politici rubano. Le imprese falliscono per le tasse troppo alte. L’evasione fiscale la fanno solo i politici e i loro amici grandi imprenditori, per i piccoli è questione di sopravvivenza. Le Forze dell’Ordine infieriscono sugli italiani, e a cinesi ed extracomunitari lasciano fare tutto quel che vogliono. I delinquenti spadroneggiano e ci invadono le case, reati e insicurezza non fanno che aumentare. La vera mafia sono i politici. Malattie e prostituzione le portano gli stranieri. L’euro ci ha rovinati, da quando c’è i prezzi son più che raddoppiati. Siamo schiavi della Merkel, schiacciati dai tedeschi. Non si riesce a vivere, l’Europa ci ha colonizzati, ci spreme e ci sfrutta. Eccetera, eccetera, eccetera, tra cui la perversa convinzione che i progressisti sono arroganti per natura.
Con sfrontate acrobazie populistiche, il vertice politico Cinque Stelle riprende però quegli istinti protestatari in versione no global, ossia argomentandone le ragioni con feroce critica antisistema, che riecheggia la tradizione della sinistra radicale. Col “reddito di cittadinanza” generalizzato alle fasce deboli, il pacifismo antimilitarista a ogni costo, la guerra alle multinazionali e al commercio globalizzato. L’estremismo ambientalista, il rifiuto pregiudiziale delle grandi opere, No Tav-No Tap. L’ostilità aperta al sistema bancario e a ogni ipotesi di concentrazione per rafforzarlo. Il mix di tripudio giustizialista per i potenti accusati di corruzione e di indulgenza ultragarantista verso i reati comuni. Il privilegio assoluto per le politiche di spesa sociale, assistenzialismo compreso, e di contro l’avversione per il rigore economico travestito da efficienza. Il drastico giudizio sull’immigrazione dal Sud e dall’Est del mondo a causa delle guerre per gli interessi delle Grandi Potenze, delle carestie e dello sfruttamento da parte dell’Occidente neocoloniale. La contestazione dell’Europa dei banchieri e dei burocrati, insensibile alla crescita ed impantanata nel rigore, a danno di Grecia ed Italia e dei più deboli. Il rigetto orripilato per le correzioni decisioniste dei processi democratici, a partire dal superamento del Senato con la riforma costituzionale poi bocciata al Referendum. La concezione stessa del potere politico come intrinsecamente tirannico e quindi da limitare, anziché come strumento di efficacia dell’azione di governo da promuovere e sostenere. Eccetera, eccetera, eccetera, tra cui la baldanzosa prosopopea d’avere la verità in tasca.
Sino al mito della democrazia diretta via web, vera corda originale della stridente chitarra con cui i Cinque Stelle la cantano e la suonano ai “poteri forti”, a rimarcare la propria “diversità”. Ma anche “chiave di volta” per tenere tutto insieme, destra e sinistra, vertice e base, testa e pancia. Che importano le differenze, se “tutti partecipano”? se tutte le opinioni sono buone, perché non sono dei partiti ma dei cittadini comuni, perché “uno vale uno”?
O meglio: se tutti “possono” – in teoria – partecipare alle decisioni politiche, perché poi – in pratica – la partecipazione via web risulta sempre numericamente scarsissima. Basta confrontarla con quella dell’odiato Pd, il più strutturato tra gli altri partiti (insieme alla Lega Nord, ma ben più consistente). Come lo strumento web, la invocata “democrazia diretta” resta “virtuale”. Non solo i “click” M5S sono qualitativamente ben diversi dalle “presenze fisiche” Pd ai propri momenti istituzionali (circoli, congressi, primarie), ma i nudi numeri ne sono spesso sottomultipli infinitesimali. Senza contare i contenziosi sulle maggioranze a favore o contro le alternative in discussione, che siano ipotesi programmatiche o candidati a responsabilità politiche, come il recente clamoroso caso delle “comunarie” di Genova ha dimostrato.
E proprio il caso di Genova, con il “garante” Grillo a fare prevalere la pretesa fiduciaria rispetto all’esito formale della consultazione on line, dimostra come la democrazia web sia – alla fine – una “chiave di volta” fittizia, dietro la quale si nasconde il vero meccanismo per tenere insieme Jekyll e Hyde, cervello e intestini. L’unità è data dal leaderismo carismatico personale dei fondatori del Movimento, detentori del copyright sul simbolo ufficiale e sugli strumenti di comunicazione. Un leaderismo che si è dovuto imporre più volte, a forza di espulsioni come bandiere di purezza, specialmente nelle situazioni di governo in cui la tensione interna “Jekyll-Hyde” è stata messa alla prova. Come inizialmente a Parma, con l’ottimo Pizzarotti a ragionare e agire di testa sua. Come di recente a Roma, dove il contrasto attraversava lo stesso gruppo dirigente, locale e nazionale.
Sin qui il leaderismo personale ha funzionato per tenere unito il non-partito M5S come altoparlante di protesta. Ma non ha certo risolto le questioni di linea politica, di fronte al doveroso passaggio dalla protesta alla proposta. Ineludibile quando si vince e si deve governare. L’impreparazione, l’enfasi eccessiva sugli slogan, che tutto promettono e sono impossibilitati a mantenerlo specie nel breve periodo, a Roma ha già provocato disamore popolare. Rivotando oggi M5S sarebbe sconfitto, essendo impossibile attribuire le difficoltà a forze esterne che mettono i bastoni tra le ruote.
Ma a livello nazionale la prova ancora non c’è stata, le contraddizioni non sono emerse o almeno non sono esplose. Il traino di consenso da protesta urlata ancora funziona nella base, fiduciosa nella “diversità” a Cinque Stelle e sollecitata dal permanere della crisi economico-sociale. Crisi che il Pd di governo ha avviato a soluzione, ma non nei tempi brevi promessi dall’ottimismo propagandistico di Renzi e con molti errori di merito, senza affrontare nel profondo le radici di disuguaglianza che fanno da motore e propellente alla protesta.
Non che i vertici M5S non avvertano la criticità delle prove di governo, e si illudano davvero di risolvere tutto col carisma dei leader. Il recente convegno di Ivrea e la trama di relazioni “esperte” ricercate, nell’anniversario della morte di Gianroberto Casaleggio, suggerisce consapevolezza di quanto la possibile prova di governo nazionale sia ardua, e necessiti di preparazione programmatica e selezione adeguata di classe dirigente. Ma d’altra parte l’insistenza sugli elementi proporzionali della legge elettorale fa immaginare che nel M5S la convinzione che gli tocchi governare l’Italia non sia certo granitica.
Al momento l’incertezza sembra frenare le indispensabili azioni negoziali verso gli altri partiti per spingere sul maggioritario, unico sistema elettorale che permetterebbe governi solidi e capaci di innovazione. Come se M5S preferisca gridare alla luna (nazionale) per accontentarsi di più modesti bottini locali, in vista delle prossime elezioni amministrative di giugno. Ma anche qui domina l’incertezza: M5S non ha robuste tradizioni locali se non in alcuni territori, specie nei grandi centri, e oggi non è in grado di vincere alle elezioni amministrative in modo diffuso e capillare basandosi sul solo traino nazionale. Con molti casi di suicidio, come a Varese nel 2016.
Né può servire a bruciare le tappe la questione giudiziaria, che inizialmente ha alimentato la base elettorale protestataria M5S, ma che non può trasformarlo nel “partito dei giudici”. Che non può esistere, non è mai esistito e non esisterà mai. Non solo perché soggettivamente la magistratura non vi ambisce. Ma anche e soprattutto perché l’azione giudiziaria presenta troppe variabili, intoppi e trappole per potersi sposare con un qualsiasi soggetto politico. Come insegna ancora il caso romano: dalle grida “onestà, onestà” ai guai giudiziari della Raggi con Marra/Romeo.
E gli slogan non bastano, alla prova dei fatti conta la capacità politica reale e si finisce per scontentare qualche parte della società, a destra o a sinistra, facendo saltare la trasversalità elettorale e l’aura di “diversità” che sin qui M5S ha saputo intestarsi. Jekyll-Hyde è destinato a esplodere, nella favola come nella realtà. Purché non finisca nel caos entropico in cui Hyde prevale e Jekyll scompare.
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