L’idea primaria: Ambrogio Vaghi, che 25 aprile sarà il prossimo, per uno che l’ha vissuto di persona? Inoltre: quale significato conserva e perpetua la ricorrenza?
Poi l’idea è stata rimossa. Spiegazione non secondaria: le risposte avrebbero peccato di costretta ovvietà. Nel senso che (1) l’agire d’un protagonista d’utili/temerarie azioni partigiane risulta ben noto, poiché più volte citato. Un episodio per tutti: la pistola lasciata da un soldato americano in una confezione di marmellata nella trattoria milanese dei genitori di Vaghi, e passata di mano in mano ai patrioti antifascisti della prima linea. E nel senso che (2) i valori resistenziali rappresentano un evidente e scontato continuum nella vita democratica: sono consustanziali ad essa. Detto questo, non c’è da dire altro.
Dunque con Vaghi abbiamo parlato, sì, di quei tempi, in cui la paura attizzava il coraggio. Ma anche d’altro. Specialmente d’altro. Eccolo, in fondo, il significato del 25 aprile, forte come il vento nel nostro pomeriggio di folate dialogative: poter discorrere, dal 1945 in poi, in libertà interiore ed esteriore. La grande conquista, il pluralis maiestatis politico/sociale, si nasconde nel piccolo dettaglio. Vale ricordarlo, e chinarsi nell’omaggio a quanti ce l’hanno regalata. L’eredità da risvegliare contiene un semplice sentimento di riconoscenza. Semplice è un aggettivo di voluta scelta riduttiva.
Ambrogio –di cui è inutile dettagliare il cursus honorum- vive a Induno Olona, assieme alla sua carissima Elsa. La cornice del finestrone che s’affaccia sul parco racchiude il colle di Biumo, il picco della Villa Toeplitz, le architetture del castello di Frascarolo. È un panorama sul quale non si posano sguardi cupi/immalinconiti dall’età che avanza con irruenza prepotente. Invece occhiate di orgoglio e speranza. Come si conviene a chi, portatore d’indiscussi meriti, privilegia il futuro al passato.
Curioso appare che a ridosso dei fasti della Liberazione, da sempre improntati al cromatismo tricolore, sul davanzale del terrazzo siano casualmente poggiati ciclamini d’un rosso e un bianco che s’accompagna al verde delle foglie. Vi fa la guardia un’orchidea gialla striata di garibaldine colorazioni. Sul mobile che corre lungo la camera/salotto, un dolce pasquale ancora avvolto nella carta lucida, due uova di cioccolato al latte, qualche libro, i souvenir di richiamo affettivo.
A muovere il ricordo di epoche lontane eppur presentissime sono due olii dipinti da Vaghi medesimo. Scene rurali colte a Teglio, Valtellina, fine anni Cinquanta. L’autore scoprì in giovane età la vocazione naif alla pittura. Poi vi preferì la passione della fotografia. A una parete sono appese quattro immagini che gli stanno a cuore: un paio di Ischia, una della torre di Londra, la quarta d’una costruzione azteca. Testimonianze d’alcuni dei tanti viaggi compiuti, per ragioni di lavoro piuttosto che di piacere.
Ambrogio evoca, ricostruisce, narra. Ha il gusto sapido dell’affabulazione accattivante. Lo guida il naturale dono della sapienza popolare, che una metafora potrebbe accompagnare al quadro di Aldo Massari appeso dietro la sedia in cui riceve/da cui racconta: frutti della terra in poetico mix. Sul tavolino di legno chiaro, sgombro da altro che non siano due giornali e un bicchiere d’acqua, si posano spesso, e quindi si levano, le mani nel gesto ondeggiante tipico dei direttori d’orchestra. Certo inconsapevole, eppure così evidente, intenso, simbolico.
Vaghi non ricerca giudizi da distribuire né sentenze da pronunziare. Solo esperienze da proporre. Gliene chiedono conto in molti, e lui è generoso nell’offrirle. Lo stile, quello solito: riservato ed efficace insieme. Non vi ha derogato nemmeno in questa circostanza di rilievo storico, rinunziando a chiacchiere che sarebbero risultate inutilmente aggiuntive dei fatti. Una lezione di sobrietà e realismo, la vera resistenza al parolaio totalitarismo della contemporaneità.
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