La domanda che in questi giorni si sentono spesso rivolgere uomini delle forze dell’ordine, uomini di legge, giornalisti e anche persone semplici e considerate sagge è la seguente: quale opinione ci si è fatti sul caso di Lidia Macchi e sul processo apertosi qualche settimana fa in corte d’assise a Varese, trent’anni e tre mesi dopo il delitto.
Sul banco degli imputati Stefano Binda. Molto di più di un “presunto assassino”, a giudizio dell’accusa, detenuto dal gennaio dello scorso anno, visto che sono sempre state respinte istanze e richieste di scarcerazione.
Ma il processo appena avviato, a leggere il fitto elenco dei testimoni chiamati in causa, e ammessi, non sembra essere solo il processo nei riguardi di un unico individuo, quanto quello nei confronti di un’intera città e forse addirittura di un sistema giudiziario e d’indagine che finora, nonostante i tentativi esperiti e il lungo tempo trascorso, non è riuscito a pervenire a una benché minima verità, né di tribunale né d’altro tipo.
E la stretta di mano, all’inizio del dibattito, tra la rappresentante dell’accusa e Stefano Binda, potrebbe rappresentare – da una parte – una manifestazione di fair play, ma – dall’altra – un gesto che a tre decenni e passa dal delitto sembra pure avere un significato solo inutilmente rituale e forse ipocrita.
Tornando alla domanda iniziale, quale opinione ci si è fatti di questo processo e delle eventuali responsabilità dell’uomo che siede sul banco degli imputati, la risposta non può che essere dubbiosa e di grande perplessità. Senza che nuovi colpi di scena sopravvengano nel corso del processo.
Perché anche da questo punto di vista l’inizio è stato scoppiettante. A cominciare dalla “prova regina”, una lettera scritta dal probabile assassino alla famiglia – ma anche qui il collegamento è tutto da dimostrare – pochi giorni dopo la morte di Lidia. Il perito dell’accusa l’ha considerata senza alcun dubbio della mano di Stefano Binda. Il perito della difesa dice il contrario.
Non solo – ecco il fatto abbastanza clamoroso conosciuto il primo giorno del processo –, un avvocato di Brescia, un avvocato di grido e di esperienza riconosciuta, ha fatto sapere d’avere ricevuto una confidenza da parte di un’altra persona, che dichiara di essere il vero estensore della lettera, e che non è Stefano Binda naturalmente.
Tralasciamo altri aspetti dell’indagine ultima e recente che proprio non andrebbero nel segno del raggiungimento di inoppugnabili certezze: gli scavi al parco Mantegazza di Masnago alla ricerca del pugnale usato dall’assassino per il delitto, il parco dove – passandogli vicino una mattina in auto con un’amica – il Binda sarebbe sceso per nasconderlo, seppellendolo. E poi altri scavi e “dragaggi” alla collina del Sass Pinì, tra Caravate e Cittiglio, il luogo in cui una mattina d’inizio gennaio, fu trovato il corpo martoriato della giovane Lidia Macchi, a bordo della Panda con la quale era sparita; un luogo ormai impraticabile e pressoché irraggiungibile.
L’esumazione della salma di Lidia, al cimitero di Casbeno, alla ricerca di tracce di elementi su quel che resta del corpo della ragazza, trent’anni dopo, che possano essere sottoposte all’esame del dna e portare in qualche modo all’identificazione dell’assassino, ha aggiunto sorpresa e dubbio. Specialmente se si pensa che una parte di quelle tracce – forse non rilevante neppure oggi ai fini dell’indagine – fu distrutta per ordine di un magistrato al quale, a quanto si sa, manco è stata accennata una tirata d’orecchie.
E ancora di più, invece, sorprende che il dottor Agostino Abate, all’epoca sostituto procuratore incaricato dell’inchiesta non sia stato chiamato a dire la sua sugli sviluppi di questa vicenda. Né prima né ora. A detta di tutti (ma forse non di alcuni suoi colleghi) il dottor Abate, oggi a Como quasi in una sorta di esilio, è sempre stato un magistrato scrupolosissimo. Un implacabile Javert che scandagliò anche negli abissi il movimento di Comunione e liberazione di cui la giovane Lidia, bella, esuberante il giusto, studiosa, sensibile all’arte e alla poesia faceva parte.
Sgomenta infine la presenza in aula della mamma della ragazza, quando ogni giorno che passa, ogni evento giudiziario e mediatico non fanno che riaprire antiche ferite. Una madre dolorosa che chiede con voce sommessa una verità degli uomini e su questa terra, almeno. Che preceda, anche se di poco ormai, quella di Dio.
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