Nato a Messkirch (Baden) nel 1889 da famiglia cattolica Martin Heidegger compie gli studi ginnasiali a Costanza e Friburgo, alla cui Università si iscrive frequentando per un biennio corsi di teologia. Abbandona questi studi nel 1911 per dedicarsi interamente alla filosofia. Seguito da Heinrich Rickert si laurea nel 1913 con una dissertazione su La teoria del giudizio nello psicologismo. Nel 1915 consegue la libera docenza in filosofia con una tesi su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, divenendo quindi assistente di Edmund Husserl nel 1919.
Si lega a lui in un rapporto di intensa familiarità e di condivisione del metodo fenomenologico. Nel 1923 ottiene la cattedra a Marburgo e nel 1927 pubblica sulla rivista di Husserl Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung le prime due parti dell’opera sua fondamentale Essere e tempo, rimasta sospesa.
A differenza del maestro, Heidegger non si accontenta di una fenomenologia dei vissuti intenzionali propri di una coscienza pura, non collocabili storicamente, rivolgendosi in particolare al problema filosofico per eccellenza, quello della comprensione del senso dell’essere. Traguardo provvisorio l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale (Preambolo dell’opera).
Queste le direzioni di ricerca del giovane Heidegger:1) un attraversamento critico della fenomenologia di Husserl; 2) la riscoperta del Cristianesimo primitivo, soprattutto grazie alle Lettere di S. Paolo; 3) l’appropriazione del pensiero di Aristotele (in primis dell’Etica Nicomachea e della Fisica).
Questioni essenziali: Che cos’è la filosofia? Quale è il modo di essere della vita? Qui interviene il concetto di vita fattuale, di fattività (Faktizität), che non va intesa nel senso delle condizioni oggettive della vita, né con i condizionamenti soggettivi o psicologici dell’io, quanto piuttosto come un modo d’essere originario della vita, come essa vive ogni suo contenuto o situazione. Esso non coincide né con la coscienza, né con l’io e non è comprensibile né con la metafisica né con la psicologia.
La vita fattuale è il terreno originario della filosofia. La vita non va ingabbiata entro strutture concettuali elaborate dalla nostra mente: essa porta dentro di sé le categorie più adeguate per essere compresa.
Analizzando il pensiero di Paolo, Heidegger pone al centro dell’attenzione il concetto di tempo, inteso non come una semplice cornice all’interno della quale si svolgono gli eventi della vita, bensì come la modalità più specifica dell’essere della vita stessa, fattuale non in quanto ha il tempo, ma perché è il tempo. È una temporalità che non si riferisce creaturalmente a un rapporto di dipendenza dall’essere eterno (Dio), significa invece che la vita è originariamente in rapporto con se stessa; consiste nel movimento mai concluso di pervenire a se stessa. Pertanto la seconda venuta di Cristo (parusia) non si rapporta a un evento futuro, che deve ancora accadere. Si tratta di una dimensione specifica con cui il cristiano vive il suo presente, continuamente de-centrato da se stesso, vivendo in sobrietà nell’attesa. Individua nell’attesa il come della vita.
Interrogando il libro XI delle Confessioni di Agostino sul tempo (per il santo non è misurabile in sé, o un semplice metro di misura delle cose che passano, perché è misurato solo nello spirito – animus –, Heidegger offre questa interpretazione: io misuro il “sentirmi” nell’esistenza presente, non le cose che passano, affinché esso sorga. È il mio “sentirmi” che misuro.
A partire dalle riflessioni su Aristotele, Heidegger comincia a servirsi per la vita fattuale del termine “esserci” (Dasein) o “esistenza” (Existenz). La vita si muove sempre “prendendosi-cura” di qualcosa con riferimento a oggetti, situazioni, dati presenti nel mondo e nel contempo tende sempre a identificarsi con queste cose, perdendo la propria specificità ; è una tendenza a “cadere in rovina” per una forza di gravità che la porta a cadere e decadere.
Pendolarmente però si sviluppa un contromovimento di temporalizzazione, in cui emerge il carattere storico del suo essere.
C’è differenza tra l’esserci (l’esistenza dell’uomo ) e l’essere di tutti gli altri enti. La questione dell’essere è rimasta dimenticata in gran parte della storia della filosofia. Certo il concetto di essere è il più oscuro di tutti; sarebbe indefinibile a motivo della sua generalità, ma è proprio l’indefinibilità che non dispensa dal problema sul suo senso e al contrario lo rende necessario. Perciò l’ontologia non deve rivolgersi semplicemente all’essere come tale, bensì al problema del senso dell’essere Esserci non indica qualcuno, che è in una maniera già determinata, bensì l’avere-da-essere quello che è, cioè la sua possibilità, non ancora realizzata e che non potrà mai realizzarsi, perché, se ciò avvenisse, l’esserci si ridurrebbe anch’esso a un ente naturale o mondano. La vita dell’uomo non ha semplicemente delle possibilità, ma è essa stessa possibilità.
Caratteristica decisiva dell’esserci è l’essere nel mondo( In- der –Welt- sein), come orizzonte del progettare umano, campo delle possibilità che stimola l’uomo a un continuo trascendere. L’esistenza non è descrivibile da categorie in grado di cogliere unicamente le cose presenti, ma piuttosto mediante gli “esistenziali”, in cui si mantiene vivo il senso delle possibilità.
L’essere nel mondo è sempre riferito a una totalità di significati, che fa sì che il primo esistenziale, il suo carattere fondamentale, è la comprensione (Verstehen), apertura al senso che precede ogni significato, preliminare e la conoscenza è articolazione di una comprensione originaria.
La comprensione è l’apertura originaria alla significatività delle cose; l’interpretazione (Auslegung) è soltanto il modo in cui i significati si articolano all’interno di tale apertura. Tra l’una e l’altra si realizza un circolo ermeneutico e non vizioso. Tra gli esistenziali è compresa la situazione affettiva, questa tonalità è il modo originario di sentirsi nel mondo. Heidegger rimarca l’effettività e il carattere di finitezza dell’essere umano accanto alla spinta al progettare/trascendere.
Siccome l’esserci è sempre con altri esserci (mondo del si, man) seguiamo nella vita quotidiana indicazioni di condotta, che provengono da tutti. È un mondo caratterizzato dalla chiacchiera, dalla curiosità, dall’equivoco. Il si prescrive la situazione emotiva, stabilisce che cosa si vede e come si vedono le cose. In questo mondo l’esistenza non può essere che inautentica e realizza una forma di comprensione anonima.
L’opposto è la cura (Sorge), a sottolineare la responsabilità che bisogna assumere “rispondendo” al mondo.
La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci. È la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. L’anticipazione della morte dischiude all’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte. L’essere per la morte significa che l’esserci è un ente che non si può realizzare come tutti gli altri enti, la cui realizzazione coincide con la sua impossibilità.
Con una decisione dell’esserci, assumendo l’angosciosa libertà per la morte, cioè per la propria impossibilità, si esiste in maniera radicalmente propria, cioè autentica. Alla decisione anticipatrice della morte è connesso il concetto di temporalità come senso dell’essere dell’esserci. Essa si apre all’avvenire assumendo l’esser-gettato come essere colpevole, come passato dell’esserci. Non è possibile pensare l’ente e quindi anche l’esserci sul modello tradizionale della semplice presenza, il che è proprio della metafisica. La temporalità si rivela come il senso della Cura autentica. È da considerare come l’originario fuori di sé in se stesso e per se stesso. Così l’esistenza si qualifica “estaticamente” e la temporalità viene individuata come ciò che la costituisce. È la storicità costitutiva dell’esserci a permettere qualcosa come la storiografia.
Significativo in Heidegger è il concetto di angoscia, tonalità emotiva prettamente ontologica rispetto alla paura, che esprime sempre il timore per qualcosa di determinato; l’angoscia invece è una fuga dell’esserci davanti a se stesso, in quanto poter essere se stesso autentico; è il suo nudo esser gettato nel mondo, che lo fa sentire spaesato in mezzo a tutti gli enti intramondani e del tutto isolato in se stesso.
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