Il velo lo abbiamo portato anche noi. Noi donne della generazione che poi ha compiuto la più grande rivoluzione di tutti i tempi: quella femminile.
Il velo era obbligatorio per le bambine che frequentavano il catechismo in preparazione alla prima comunione e alla cresima. Da lì in avanti, lo portavamo sempre alla Messa e dovevamo fare attenzione che non scivolasse sui capelli, scoprendo il capo. Succedeva spesso, in realtà, perché il materiale leggero, di pizzo o nylon, a seconda della preziosità del tessuto e anche dell’età di chi lo indossava, non aderiva bene.
Ma poteva anche capitare di dimenticarlo a casa, per svagatezza: e allora bisognava vedersela con la suora di turno, sperando nella sua tolleranza. Peggio era con la zia beghina che t’accompagnava a messa: e non te ne faceva passare una, anche perché di veli t’aveva riempito i cassetti, regalandone uno ad ogni Natale, onomastico o compleanno.
Davanti al prete, al momento dell’Eucarestia, rimediavi presentandoti con il velo, passato in fretta dall’amica, appena rientrata nel banco, dopo essersi comunicata. Confesso che, a parte qualche tentativo di farmelo piacere- provandolo e riprovandolo davanti allo specchio, per pura civetteria femminile- col velo non sono mai andata d’accordo. Mi pareva ormai un retaggio ereditato dalle nonne, e non lo sopportavo. Prima di tutto per ragioni di praticità.
Cosa poteva mai cambiare, davanti a Dio, quel pezzo di stoffa? E poi, perché solo noi femmine?
A infastidirmi era proprio quell’obbligo che non capivo, e che del resto nessuno aveva mai provato a spiegarmi, e che cadeva solo ‘in capo’ a noi e non ai maschietti, che sfoggiavano le loro testoline pulite. Ci si imponeva di nascondere il viso e i capelli, come fosse un gesto di pudore, necessario: lo assimilavo in parte allora, e ancora oggi nei miei ricordi, al colletto bianco di piquet, indossato sopra al grembiule nero, durante la scuola media.
Frequentavo la Silvio Pellico e la severità dell’ambiente imponeva anche quello. Se l’insegnante di economia domestica scopriva che non l’ avevamo, scattava la nota sul registro.
Preistoria, dirà qualche giovanissima. Sì, proprio così, e per fortuna ce la siamo lasciata alle spalle, assieme a tante altre imposizioni inutili. Ma il cammino delle ragazze degli anni Sessanta, quelle che hanno fatto la rivoluzione, lasciatemi dire soprattutto quella che l’hanno fatta in silenzio- senza alzare le braccia, senza urlare, senza fare allusioni gestuali con le mani- nelle case e nelle scuole, nelle chiese e negli uffici, semplicemente chiedendo e pretendendo libertà e rispetto, quel cammino in salita di piccole, grandi vittorie strappate giorno per giorno, è stato costellato di ostacoli.
Qualche donna è stata anche emblema glorioso, eroina autentica, come Franca Viola, nata nel ‘47.
Era una ragazza del sud. È entrata nella storia per aver rifiutato il “matrimonio riparatore”, quello che concedeva al rapitore della donna, oggetto di violenza, di poter essere assolto davanti alla legge, e al giudizio degli uomini, qualora l’avesse fatta sua sposa.
Franca disse di no: “L’ho fatto perché così mi sono sentita di fare” ha raccontato a distanza di anni“ non fu un gesto coraggioso, ho seguito il mio cuore, come farebbe una ragazza di oggi”.
Abbiamo vinto, certo, e dunque nessuno ci può togliere il merito. Ma da qualche tempo abbiamo ricominciato a farci domande.
Ce le poniamo, desolate, leggendo di certe mostruosità delittuose, consumate ogni giorno sui corpi di altre donne. Ci interroghiamo, davanti allo sfruttamento universale di troppe giovani e bambine, per fini biechi. E soffriamo, per lo scarso rispetto di tanti maschi superficiali, se non addirittura violenti, verso le loro mogli o compagne, verso le famiglie che con loro hanno costruito. E non stiamo parlando di altri pianeti, neppure di altri continenti. Parliamo di noi, di quel mondo dove le ragazze degli anni sessanta hanno investito, con coraggio, risorse e speranze.
Eppure, attenzione alle donne: sono sempre tante e forse ancora più forti, il velo si sta di nuovo squarciando. Proprio da là, dove è più difficile- e si deve essere davvero eroiche per dire no- arrivano nuovi segnali. Anzi arrivano “soprattutto” da là. É il loro momento e nessuno le fermerà.
La nuova speranza sboccia come un fiore. Il cerchio s’allarga, stringe il mondo attorno attorno,
e bisognerà darsi di nuovo la mano.
Non c’è giorno che non si alzi una voce nuova: vogliamo decidere come vestirci, vogliamo essere rispettate.
Vogliamo essere come le altre, dicono.
Se lo sussurrano l’una all’orecchio dell’altra.
Non serve neppure il telefonino.
Basta il passaparola, come allora.
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