Credevo di aver trovato il modo di suscitare le simpatie di commesse e commessi di alcuni negozi della città per essere servita subito e meglio.
Colpa dei larghi sorrisi con cui negli ultimi tempi mi è capitato di essere accolta in alcuni degli anonimi centri commerciali del centro. Per ingenuità, avevo ritenuto che il mio atteggiamento in sordina, con un sorriso appena abbozzato, quasi timido, avesse indotto l’altro a rispondermi con esagerata gentilezza, inspiegabile e in aperta contraddizione con l’opinione che ci siamo fatti su questa tipologia di lavoratori.
Basta con i commessi che hanno l’aria di essere stati disturbati dal nostro ingresso nel negozio, che alle richieste rispondono a caso dando l’impressione di non voler perdere tempo prezioso, anche in tempi di negozi poco frequentati per via della crisi. Mai più commessi annoiati dalle ore di permanenza dentro le quattro mura, tra luci innaturali, caldo soffocante in inverno e afa d’estate; passata l’era di quelli che parlano con te cliente e intanto buttano l’occhio allo smartphone; stop alle conversazioni tra colleghi in presenza del potenziale cliente; scomparsi i commessi che lo fanno sentire inadeguato.
Qualcosa è cambiato. Un addetto alle vendite poco più che ventenne mi dà del tu; trasecolo! Gli sono sembrata così giovane da essere scambiata per una sua pari? Con quel sorriso fuori luogo: in fondo ho solo chiesto, e con discrezione, un’informazione sul tal prodotto.
Il ragazzo dispensa sorrisi e la sua collega anche. Non so spiegarmi queste manifestazioni di amicizia e questo clima di fratellanza intergenerazionale. Quale sarà la ragione di tutto ciò?
Da quando in certi negozi il personale è sempre felice, e mai triste o imbronciato o accigliato?
Succede questo: in America hanno scoperto che la felicità è uno strumento di gestione del business, e dunque i sorrisi, divenuti obbligatori, hanno invaso negozi, caffetterie, fast food. La nuova formula è approdata anche da noi e sta entrando nelle pratiche quotidiane delle catene di vendita nate in America.
L’Economist spiega che le aziende all’avanguardia si stanno impegnando nella diffusione della “formula della felicità” applicata alle vendite: la filosofia è spiegata in un libro che tradotto significa “Consegnare la felicità” e questo vale sia online sia nei negozi. Un’azienda di scarpe ha chiesto al proprio personale di essere felice, molto felice, mentre si vendono scarpe.
Una società per l’assistenza sanitaria, sempre americana, impone ai dipendenti di stabilire un contatto visivo con gli occhi e di sorridere ogni volta che si incrocia un cliente.
Al momento dell’assunzione viene scelto l’addetto che sa mostrare maggiore felicità, poco conta se felici non si è, o lo si è solo minimamente.
Un’altra azienda, inglese, che vende fast food, ha inventato una figura di “babau”, un ispettore in incognito che ha il compito di costringere i dipendenti più restii a dispensare sorrisi, che si muove come un cliente fantasma mescolato tra la folla degli avventori. Una volta monitorato il livello di felicità degli addetti al contatto con il pubblico, il team che si è rivelato “più felice” riceve come bonus una sterlina in più all’ora sulla busta paga. Eccoci giunti alla polizia della felicità, nell’era degli addetti felici per obbligo, dove non è sufficiente presentarsi puliti, ordinati, cortesi, puntuali ed efficienti: bisogna essere anche felici per decreto.
Noi clienti che cosa ne pensiamo, dopo l’illusione di essere stati noi la spinta, se non alla felicità, almeno alla serenità? Ci piace il sorriso professionale, che dalla bocca fatica ad arrivare agli occhi, un sorriso di plastica indossato magari per otto ore?
La chiamano cultura del sorriso, del “sorriso in primis”. L’azienda che sostiene di avere a cuore la felicità dei suoi dipendenti offre loro anche corsi di yoga tra colleghi, lezioni sul welfare aziendale, biliardini sistemati nelle aree relax, seminari in montagna per l’intero team, e tutto per indurre felicità.
Rimpiangeremo l’oste burbero e malmostoso della trattoria fuori porta?
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