Pur riconoscendo la grande preparazione e pur ammettendo che sta restituendo uno straccio di credibilità alla malconcia Italia, non sono un particolare fautore del concittadino premier, nonché illustre economista, Mario Monti. Ma gli devo dare atto che il “no” (a nome del governo) alla candidatura di Roma ai Giochi olimpici 2020 è stato un atto lucido, di coraggio e di coerenza. Intendiamoci. A me, da appassionato di sport, piange il cuore che non ci sia una nuova opzione per l’Italia (sempre che poi fosse solida e consistente: ci si sta dimenticando della qualità delle cinque città rimaste in gara, contro le quali la capitale sarebbe andata a scontrarsi…). E mi sarebbe andato bene pure l’eventuale bis di Roma, pur essendo straconvinto dell’opportunità che il prossimo giro tra i cinque cerchi lo faccia un centro del Nord, che si tratti di Milano o di Venezia.
I Giochi rimangono sempre una carta forte, una chance, un traghetto per condurre una nazione da un punto A a un punto B che risulta essere migliore. Fu così, in fondo, nel 1960 proprio per Roma e lo è stato poi per Torino nel 2006 e per la sua edizione invernale (tra molti errori, ritardi e non poche contraddizioni, soprattutto sulla cosidetta legacy, o eredità olimpica). Da giornalista sportivo, ho visto città diventare ancora più belle ed entusiasmanti, grazie al fuoco sacro di Olimpia: Barcellona è il prototipo di quanto sostengo, ma potrei aggiungere Sydney e forse la stessa Pechino, per quanto i Giochi 2008 si siano dimostrati quelli di un’elefantiasi di Stato assolutamente fuori luogo e comunque irripetibile altrove. Anche Roma avrebbe potuto e dovuto trarre dei benefici. E con essa l’Italia. Benefici di un mondo nel frattempo diventato globale e globalizzato, che usa la parola “fast” (veloce) come suo credo. Un mondo che crea e distrugge, certo, ma che, se ben gestito, sa e può generare plusvalori su vari fronti. Ecco il punto. Probabilmente sul piano strettamente dell’organizzazione sportiva, l’Italia sarebbe stata all’altezza. Ma ci sono fondati sospetti – gli stessi che hanno mosso Monti, sicuramente – che non sarebbe stata altrettanto brava sul fronte del controllo delle spese e delle risorse e sulla specialità più difficile (altro che i 100 metri…), ovvero il contenimento dei signori del “magna-magna” e di una classe sportiva nazionale che sognava la sua (ricca) pensione.
Per favore, non insorgete. Non stiamo né esagerando né dicendo fesserie. Non sono stati capaci gli inglesi ad evitare il raddoppio dei soldi necessari all’evento, pur con un progetto olimpico non dico da “cipolle e fagioli” ma di certo all’insegna di una sobrietà tipicamente anglosassone, figuratevi se ci saremmo riuscitinoi, portati al glamour, alle iperboli, alle scelte costose. Poi non scordiamoci che siamo quelli dei disastri di Italia 90, talmente vari e assortiti da uscire dal pianeta di quei Mondiali di calcio e da contaminare pure altri sport (le incompiute hanno riguardato anche un bel po’ di palasport del basket, cominciando da quello di Cantù, raso al solo di recente e costato alla comunità una decina di milioni di euro). E non dimentichiamoci nemmeno che siamo arrivati ai Mondiali di nuoto 2010… senza le piscine.
No, meglio un taglio netto. Drastico, doloroso, non esente da dubbi (uno su tutti: quando mai questo Paese avrà ancora la forza e la voglia di investire?) ma necessario. E’ verosimile – I know my chicken; anzi, my fat chicken, ovvero i tanti iscrivibili al già citato club del “magna-magna” – che Roma 2020 avrebbe lasciato impianti un po’ così, strade, stazioni e aeroporti solo sulla carta. E in più, alla faccia degli sbandierati Giochi a costo zero (ma quando mai?…), debiti pazzeschi alle future generazioni, che avrebbero maledetto e non lodato Olimpia e la storia. In una partita a scacchi, una tattica spesso vincente prevede che si semplifichi lo scenario riducendo i pezzi, propri e dell’avversario, con adeguati cambi. Mi pare che Monti abbia proprio seguito questo canovaccio.
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