Il 23 marzo scorso ho fatto un viaggio. Ho accompagnato in Polonia un gruppo di studenti del Liceo classico «Ernesto Cairoli» di Varese. Destinazione, Auschwitz. Insieme a circa 700 persone (studenti, lavoratori, pensionati), abbiamo partecipato all’iniziativa promossa da Cgil, Cisl, Uil «In treno per la memoria». Ci siamo ritrovati tutti presso il binario 21 della Stazione centrale di Milano. Lì, accanto a lunette decorate, in cui ancora si vedono Camicie nere salutare romanamente un Benito Mussolini, al quale hanno scalpellato il volto, c’è, dal 27 gennaio 1998, una lapide che ricorda come da quel luogo, o meglio, dai sotterranei corrispondenti a quel binario, «cominciò il lungo viaggio di uomini donne e bambini ebrei e oppositori politici deportati verso Auschwitz e altri lager nazisti». In calce, è stata posta una frase di Primo Levi: «Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra».
Ecco, noi siamo partiti da lì, dalla lettura di queste frasi, disponendoci ad affrontare l’«angoscia». «Angoscia», spiegano i vocabolari, è la condizione di chi è profondamente afflitto o preoccupato. In verità questo sentimento ha iniziato a manifestarsi sin da quando abbiamo saputo che avremmo preso parte a questo viaggio. Quali ondate emotive si sarebbero abbattute sui nostri animi? Come avremmo potuto affrontare un’esperienza che ci avrebbe condotto nel cuore di quel «buco nero», come si espresse Primo Levi in un articolo della «Stampa» il 22 gennaio del 1987, che inghiottì «uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere ebrei»?
Afflitti e preoccupati, dunque, siamo saliti sul nostro treno. Con uno spirito molto diverso da quello che solitamente accompagna il viaggio di istruzione (e cioè: la gita scolastica) di studenti liceali.
Il viaggio in treno sino a Cracovia è durato un giorno intero. Siamo stati alloggiati in cuccette. Sei per ogni compartimento. Sul treno avevamo a disposizione bagni, lavandini, un bar. Ci hanno dato anche panini, frutta e bevande. Ventiquattro ore in treno sono lunghe. E il treno sembrava muoversi lentamente. La gioiosa simpatia dei miei studenti certamente rendeva il clima piacevole, divertente lo stare insieme stipati in uno spazio che, a noi, sembrava angusto.
Diverso fu il viaggio, in treno, che Liliana Segre fu costretta a fare nei primi mesi del 1944:
«Il viaggio verso Auschwitz […] è uno dei capitoli più terribili della Shoah. Il mio è durato sei giorni, e per sei giorni questa umanità viveva stipata nel vagone con le sue miserie, con i suoi bisogni fisici, con i suoi odori di sudore, di urina, di paura. […] All’inizio fu il tempo del pianto […]. La seconda parte del viaggio fu quella della preghiera […]. Poi ci fu l’ultima parte, quella del silenzio: un silenzio solenne, importante, più denso di qualsiasi pianto o preghiera. Non c’era più nulla da dire. Era il silenzio delle ultime cose, quando si è soli con la propria coscienza e la sensazione che stiamo tutti per morire.»
Liliana Segre aveva, a quel tempo, tredici anni.
Siamo arrivati a Cracovia. Siamo stati alloggiati in un elegante albergo. Siamo stati subito portati a pranzo e poi a fare un giro della città. Il giorno dopo, sabato, abbiamo visitato Auschwitz e Birkenau. Ad Auschwitz, appena superato il cancello già visto infinite volte in fotografia, la voce di tutti si è abbassata sino quasi a spegnersi. Abbiamo visitato gli spazi oggi adibiti a luogo di esposizione. Un museo della perdita, in verità: la perdita della dignità, della umanità, della pietà, della vita. Uno strano museo, che custodisce e alimenta qualcosa di immateriale: il ricordo. Il ricordo della violenza, della sofferenza, della morte.
Nel pomeriggio siamo stati trasferiti a Birkenau. Anche qui, il luogo era già noto al nostro sguardo di consumatori compulsivi di immagini. Eppure nessuna immagine ci aveva preparati alle reali dimensioni del campo, nessuna immagine ci aveva raccontato il vuoto, quel senso di vuoto che ha fatto riemergere in tutti il sentimento dell’angoscia.
Noi eravamo scesi da un autobus, dopo aver pranzato e recuperato l’allegria e il buon umore. Yehuda Bacon, invece, arrivò ad Auscwitz-Birkenau il 17 dicembre 1943. A quattordici anni, voleva diventare un pittore:
«Era notte quando lo sportello del carro merci su cui viaggiava Yehuda Bacon fu spalancato. Mentre batteva le palpebre alla luce abbagliante dei fari, vide alcuni uomini in pigiama a strisce appoggiati a bastoni da passeggio. Il suo primo pensiero fu che fossero arrivati in una sorta di singolare campo di convalescenza per invalidi. Poi, accompagnati da strane urla in una lingua che non comprendeva, Yehuda vide entrare in azione i bastoni, colpire gli uomini e le donne e dividerli in due file diverse sulla rampa accanto alle rotaie.»
La visione di quello spazio, in cui ancora oggi i perimetri delle baracche, le reti divisorie, i resti dei crematori, i binari, i locali destinati alle diverse funzioni, restituiscono il disegno complessivo della originaria organizzazione, la visione di quello spazio, dicevo, spiega in modo efficace la natura di quel genocidio, che gli storici hanno descritto come un massacro eseguito “senza odio”, in virtù di un sistema organizzato sul modello della moderna industria e finalizzato alla produzione di morte. La trama che è possibile leggere nel campo di Birkenau, nella sintassi ordinata delle sue tracce materiali, racconta come quella storia sia il risultato di un progetto pianificato, studiato, realizzato. Tutto, in quel campo, racconta come la pratica dello sterminio fu il risultato di una precisa razionalità. E non l’estemporanea violenza di una mente perversa. Abbiamo compreso, calpestando la terra di Birkenau, che quanto lì accadde non ha nulla a che fare con ciò che comunemente definiamo «mostruoso». Come osservò il filosofo Günther Anders, il «mostruoso» di cui parliamo in questa circostanza è «il fatto che c’è stato uno sterminio istituzionale ed industriale di persone, e che si è trattato di milioni di persone»; il fatto che «ci sono stati dei capi e degli esecutori di questa attività»; il fatto che «milioni di persone furono messe e mantenute in una condizione in cui erano all’oscuro di tutto». E costoro «erano all’oscuro di tutto proprio perché non volevano sapere niente; e non volevano sapere niente perché non gli era permesso di volerne sapere qualcosa. Insomma milioni di passivi uomini-Eichmann».
Domenica, abbiamo ripreso il treno. Vi siamo saliti con un senso di liberazione. Come se coltivassimo, inconsciamente, il desiderio di lasciarci alle spalle quell’angoscia, che ci aveva accompagnato nei giorni precedenti. Ma sul treno, alla sera, abbiamo ripreso a parlarne. Abbiamo provato a raccontare le nostre emozioni.
Poi, a Milano, dopo un giorno di viaggio, siamo usciti dalle nostre carrozze come il tappo esploso da una bottiglia di spumante. Non so quali tracce lascerà nei miei studenti questo viaggio. Non so se servirà a renderli migliori. So che ogni tanto, tuttavia, riemergerà dalla memoria, ritornerà nei discorsi. E forse, di tanto in tanto, sentiranno il bisogno di parlarne ad altri.
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