Non so perché, ma quando penso a Liala penso ai giardini di marzo di Lucio Battisti. Associo il mondo di Liala alle parole di quella sua bellissima canzone dove le giovani donne vivono nuovi amori, alle colline e praterie dove le malinconie corrono “dolcissime”. Penso che quelle parole fossero state scritte pensando a lei, alle sue pagine acquerellate, chiare di luce ma anche velate da qualche nuvola improvvisa, com’è spesso nei cieli primaverili.
Marzo, primo mese di primavera, era nel destino di Liala: la nostra scrittrice, il cui vero nome era Amalia Negretti, era nata a Carate Lario, il 31 dello stesso mese, nel lontano 1897, centoventi anni fa, in una famiglia di ascendenze aristocratiche, legate agli Odescalchi. Ma possiamo dirla varesina perché, a partire dagli anni sessanta, visse tra noi, nella sua “turris eburnea”, a villa “La Cucciola”.
Non si trattava in realtà di un maniero severo e allontanante, ma di una villa borghese degli anni Sessanta, elegante e semplice insieme, linda e luminosa, con un giardino popolato di camelie, immersa nel verde.
Nessuna barricata, dunque, tra lei e gli altri, almeno sul piano fisico.
Se le lettrici andavano a bussare al suo cancello non se allontanavano a mani vuote, anzi. Una dedica autografa arrivava sempre attraverso Primavera Cambiasi, la figlia sensibile e intelligente che ha assecondato per l’intera vita l’attività della madre.
L’altra figlia, Serenella, purtroppo scomparsa, ha a sua volta condiviso con la sorella – seppure da lontano – con la sua approvazione affettuosa, ma attenta e vigile, il “mestiere” di Liala.
Mestiere, sì, perché tale lei considerava la sua scrittura: un lavoro artigianale, un lavoro di cesello, da compiere con serietà e dedizione, con la pretesa di esser sempre all’altezza delle richieste delle lettrici, che erano anche sue ferventi ammiratrici. La prima opera del 1931, “ Signorsì”, benedetta da d’Annunzio e Mondadori, vendette un milione di copie, e grande successo ebbero sempre i suoi romanzi, più di ottanta.
Certo non era facile incontrare Liala in persona. Anzi, a partire da un certo tempo, quando le forze le si erano ridotte, per via dell’età, divenne difficilissimo.
Cercai di incontrarla, avevo ventinove anni, quando collaboravo, sotto pseudonimo, per il quotidiano locale varesino. Scrivevo racconti e recensioni per la terza pagina, curata dal bravo Gaspare Morgione, che mi aveva incoraggiata fin da subito a continuare.
La mia era allora ancora una collaborazione agli inizi – di appena tre anni prima – e chiesi di parlarle al telefono. Ci riuscii solo dopo parecchi tentativi, mandati ripetutamente a vuoto da lei, con scuse diverse: e toccava alla gentilissima figlia di riferirmele, col solito garbo.
Un giorno, finalmente, Liala venne al telefono di persona: forse incuriosita, perché non avevo desistito e mi ero di nuovo prestata al gioco del “mi richiami più avanti”.
Quella volta cercò, con la sua voce gentile, ma insieme determinata e autorevole, di sapere chi fossi: e mi chiese esplicitamente perché il direttore del giornale avesse affidato l’incarico proprio a me.
Il direttore del giornale era mio suocero, e mi seccava comunicarglielo: perché – temevo – avrebbe potuto credere che io scrivessi in grazia di tale privilegio, anziché per passione vera per la scrittura. E poi l’idea era partita da me, e nessuno me lo aveva chiesto.
Così io lasciai inevasa la domanda, e lei forse non si fidò delle mie incerte credenziali, rimandandomi a un ulteriore appuntamento.
Era quasi Pasqua, e io partii per il mare con figlie e bagagli. Andavo a recuperare le forze dopo un’ insonnia che mi stava sfiancando, trascinata da mesi, per via della seconda maternità e dei sonni inquieti della piccola.
Il mare mi aveva poi fatto bene, ed ero tornata, dopo una decina di giorni, perfettamente rinfrancata.
Riprovai a cercarla di nuovo, ma di fronte a un nuovo appuntamento, promesso e andato a vuoto, decisi che me ne sarei fatta una ragione e non avrei mai più richiamato.
Passarono gli anni, io continuavo a coltivare la passione per la scrittura: ero diventata autrice anche di libri di storia locale, e questo mi aveva condotto a collaborare per altri giornali e costretto ad abbandonare il mio pseudonimo.
Un giorno mi venne l’idea di inviarle un’intervista, con una serie di domande scritte, tramite la gentile e solerte figlia Primavera. La richiesta andò finalmente in porto e l’intervista comparve – in un ciclo di ritratti di altre donne note- nel nuovo inserto del quotidiano locale, diretto allora dal colto e umano Guido Re, che aveva fatto parte della bella squadra di Epoca, negli anni gloriosi della rivista.
Credo sia stata una delle pochissime interviste rilasciate da Liala a una donna: lo sottolineo perché mi pare fosse stata sempre più propensa a confidarsi con intervistatori uomini. Giorgio Torelli ne realizzò una memorabile, ma anche Romano Battaglia ritrasse Liala in un indimenticabile colloquio televisivo domenicale, realizzato alla Cucciola. E Aldo Busi trasse, sempre da un incontro alla Cucciola, addirittura un volumetto diventato famoso: “La Budella gentile”.
Nel tempo, spalleggiata da Primavera, avrei avuto l’occasione di scrivere spesso di Liala, che sapevo purtroppo ormai malata e quasi cieca.
Ebbi anche l’opportunità, grazie alla proposta della figlia, di far pubblicare e commentare, per la bella rivista varesina di cultura “Tracce”, diretta da Giuseppe Redaelli, un breve inedito in cui si raccontava che Luisa Baccara, la donna del Vate, le aveva un giorno confidato come, per far dormire Gabriele D’Annunzio, ricorresse al trucco di far scorrere l’acqua nei canali di casa. Pare che quel rumore, per lui dolce e rassicurante, ne placasse le ansie notturne.
Dopo la pubblicazione del racconto, mi arrivarono dal letto di Liala- un letto ormai di sofferenza- ringraziamenti commossi.
Nel 2001 ebbi ancora occasione di inserire il racconto della sua vita in un libro dedicato ad alcune donne varesine, “Il grembiule di castagne”, pubblicato dal Comune di Varese.
Immaginavo, nel racconto, fosse lei a presentarsi ai lettori, e mi basai in parte sui ricordi contenuti nella sua opera, che mi sembra la più bella in assoluto di tutti i lavori di Liala: “Diario vagabondo”.
Il “Grembiule di castagne”, che abbiamo riproposto lo scorso anno proprio su RMFonline, mi è molto caro: mi sono cari in realtà tutti i ritratti delle donne presentate, ma il suo è per me tra i più amati. Quella sua ritrosia, quel suo negarsi, quel misto di orgoglio e pudore, e la sua diffidente difesa non mi erano affatto dispiaciuti .
Forse proprio per quel suo negarsi, o meglio sottrarsi, l’avevo di nuovo inseguita.
E lei aveva raccontato per altri potenziali lettori, in un autunno ormai declinante, il suo attaccamento per quel “mestiere” difficile, artigianale, nato spesso di notte, l’antipatia per i critici ingiusti e impreparati, che condivideva con Goethe, l’assoluta avversità per l’etichetta di scrittrice rosa, e anche quel suo antico e tragico amore per l’aviatore recordman Vittorio Centurione Scotto, finito troppo presto. Il suo aereo da competizione era precipitato, nel ’26, nel lago di Varese.
Ma soprattutto aveva voluto sottolineare la riconoscenza per tutte le fedeli lettrici che, alleviando dolori e delusioni nella consolazione dei suoi romanzi, scorrazzando con lei per le colline dolcissime della malinconia, avevano ritrovato la serenità. E le avevano permesso di essere Liala, per sempre.
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