Ci sono libretti di istruzione per l’uso di ogni cosa, dalle macchine fotografiche alle creme di bellezza, dai computer alle bombe a mano, ma non ce ne sono per quello che riguarda le ingiurie e gli insulti, guide che consentano di conoscerne il significato e l’origine e ne classifichino il grado di offensività: così ognuno, se proprio deve usare un epiteto ingiurioso, potrebbe farlo con cognizione di causa e, se si trova a subirlo, potrebbe valutarne la portata e il peso. Il libro di Federico Roncoroni “Ingiurie&insulti, un manuale di pronto impiego” (editore Mondadori, a cura di Marcello Sensini) si propone proprio di fungere da manuale di pronto impiego per controllare ogni volta quanto ci si deve sentire offesi da un’ingiuria o da un insulto e quanto si offende qualcuno con un’ingiuria o un insulto. Ecco, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, qualche voce.
Bàmba Rimbambito, o meglio individuo che si comporta come se fosse rimbambito, come se avesse cioè perso la capacità di ragionare. Quindi stupido, sciocco. È un insulto di livello medio che, le rare volte in cui oggi ancora lo si usa, suona offensivo, per quanto meno offensivo del suo derivato “rimbambito” da cui siamo partiti. Tuttavia, a casa nostra era considerato lecito, alla pari di “stupido” e a differenza di “pirla” che era, per ragioni che allora ignoravo, proibitissimo. “Bamba”, di fatto, lo utilizzava pure il babbo: «Quel lì l’è propri un bamba», diceva, oppure «Fa minga il bamba». Fuori di casa, invece, era meglio non pronunciarlo, poiché era recepito come piuttosto ingiurioso. La parola, dopo che l’ebbi conosciuta, me la ripetevo spesso tra me e me e non perdevo occasione per servirmene per prendere in giro qualche compagno di scuola, specialmente di Milano, che era proprio un bamba. Mi piaceva, “bamba”, per motivi che oggi direi eufonici: a causa dello schiocco di lingua e di labbra che comporta in virtù della sua chiara origine onomatopeica – deriva dal raddoppiamento del ba-ba infantile, il suono che sta alla base di parole come “babbo” e “babbeo” – la trovavo bellissima, una delle più belle della mia infanzia: dare del bamba a uno era una gran soddisfazione fonoverbale. Oggi, la bamba è, nel gergo degli spacciatori e dei consumatori, la cocaina. Forse perché rende bamba chi la sniffa.
Càpra Individuo ignorante, rozzo e privo di garbo e di sensibilità. È un’ingiuria ad alto tasso offensivo, soprattutto se viene reiterata più volte a gran voce come è uso fare un noto polemista nonché storico dell’arte che non l’ha inventata ma resa celebre attraverso la televisione: «Capra! Capra! Capra! Capra!» e via urlando fino a che reggono le corde vocali. Come insulto, la parola è il frutto dell’uso figurato e in senso spregiativo dell’ennesimo animale, la capra: il ruminante dalle corna curvate all’indietro e dal pelo del mantello lungo e liscio, non particolarmente socievole e anzi schivo e solitario, che si trova a suo agio nei luoghi selvaggi, e anche l’animale addomesticato fin dai tempi preistorici e allevato specialmente per il latte. Questo è il triste destino degli animali: l’uomo ne metaforizza sempre i nomi scaricando su di essi i propri vizi e i propri difetti. Nel caso specifico, come epiteto ingiurioso, più di “capra” merita di essere usato, e di fatto viene usato, “caprone” che è poi il maschio della capra. Però “caprone”, quando non viene impiegato in termini scherzosi, risulta un insulto alquanto – troppo – pesante: all’idea di individuo ignorante, grossolano e duro di comprendonio associa, quale tratto dominante, quella di individuo sporco e maleodorante, che ha l’abitudine di entrare in conflitto con tutti, come fa il caprone che prende a cornate gli avversari e quanti lo infastidiscono, e nei rapporti sessuali non è particolarmente affettuoso. Il caprone è detto anche “becco” o, con un termine letterario ormai in uso soltanto nei rebus e nelle parole crociate, “irco”. Come → becco (→ cornuto) ha dato luogo alla voce, alquanto ingiuriosa, che definisce il marito di una donna infedele, cioè un cornuto.
Gesuìta Ipocrita, simulatore, mistificatore. Dal nome dei Gesuiti, l’ordine di religiosi fondato da sant’Ignazio di Loyola che per secoli monopolizzò le coscienze dei potenti. La parola, per quanto sia ormai diventata uno stereotipo, costituisce un insulto molto pesante. Il mio babbo che, benché sia nato cattolico e che cattolico volle morire, aveva in uggia monaci, frati e preti di ogni tipo, per spiegarmi che cosa volesse dire essere un gesuita, mi raccontò la storia di un gesuita che, alla domanda se si potesse fumare mentre si prega postagli da un ricco signore della cui “coscienza” non voleva perdere il controllo, rispose: «No, non si può fumare mentre si prega. Però si può pregare mentre si fuma».
Giùda Traditore, specialmente nel campo dell’amicizia e degli affetti. Quando ero bambino, il termine era considerato un insulto gravissimo, da respingere con tutte le forze, con spiegazioni e giuramenti, e con la citazione di testimoni a discarico o persino, nei casi più seri, facendo a botte. Di fatto, dire a qualcuno «Giuda!» o «Sei un Giuda!» equivaleva a offenderlo pesantemente, e sentirselo dire era una cosa che bruciava. Ora non è quasi più usato, tranne che qualche rara volta, da una moglie a un marito fedifrago o – il termine è unisex – da un marito a una moglie infedele. Ormai, il mondo è tutto un parterre di bugiardi, traditori, impostori, ipocriti e voltagabbana. E persino Giuda, il padre di tutti i Giuda, è stato rivalutato: non è forse vero che il suo tradimento era necessario perché, di fatto, si compisse il destino del tradito, che doveva morire per risorgere e riscattare dai peccati con il suo sacrificio l’intera umanità? Oh nonna, nonna, te beata che vivesti in tempi duri e non sempre buoni e belli, ma in cui i valori e i punti di riferimento erano, per quanto crudi, precisi e saldi. E ancora più beata perché morte ti scampò dal marasma in cui i princìpi e gli ideali sono sprofondati, lasciandoci a vagare miseri e soli, incerti e spauriti.
Miscredènte Persona, indifferente o scettica in campo religioso, che non accetta o accetta solo in parte, o in un modo diverso da come la Chiesa le insegna, le verità di fede. È una delle parole che più ho sentito come dolorosamente offensiva della mia vita, benché di ingiurie e di insulti ne abbia ascoltati e ricevuti non pochi: forse perché mi veniva rivolta da una persona cui volevo bene o forse perché ero in quell’età in cui si è particolarmente sensibili ai rimproveri e alle accuse che si sanno fondate. Di fatto, così, “miscredente”, mi definiva la nonna Pina, in un tono di riprovazione ma anche di accusa, quando da adolescente, per posa o per capriccio, mi rifiutavo di recitare il rosario con lei o di andare a messa: come se, da quel bambino perbene, battezzato e cresimato che ero stato fino a poco tempo prima, fossi ormai sulla strada per diventare un poco di buono, un pagano o un selvaggio, per usare le sue parole. Voleva scuotermi e per questo adoperava un termine che per lei suonava, quale era, un vero e proprio insulto: miscredente. Una volta permise all’amore che provava nei miei confronti di chiamarmi addirittura ateo e senzadio, espressioni che per lei, nella sua fede infinita, costituivano il massimo delle accuse possibili. Campò tanto a lungo da vedere con i suoi occhi che – nonostante avessi abbandonato ogni pratica religiosa, nonostante esprimessi spesso e volentieri opinioni e giudizi negativi nei confronti della Chiesa e dei suoi membri, e nonostante conducessi una vita, dico io, piuttosto libertina – non mi riuscì mai di diventare quel peccatore inveterato, quel delinquente nonché possibile criminale che temeva. Poco prima di andarsene mi confidò il suo rammarico di non potere, al momento, sperare di rivedermi in paradiso da cui, mi disse, per via della mia ostinata miscredenza sarei rimasto escluso. Quelle parole mi addolorarono profondamente, perché sapevo che le venivano dal cuore. Tuttavia, quando le dissi che non mi aspettasse in paradiso in quanto ero intenzionato ad andare all’inferno dove avrei ritrovato tutti i miei amici e le mie amiche, rise, rise di gusto, tra un colpo di tosse e l’altro.
Paolòtto Bigotto, baciapile e bacchettone. È un termine offensivo, usato anche per indicare una persona intollerante e di vedute corte. Deriva dal nome dei religiosi appartenenti all’ordine dei missionari di san Francesco di Paola o da quello dato ai membri della Compagnia di San Vincenzo de’ Paoli.
Quaquaraquà Persona priva di dignità e valore: una perfetta nullità umana, capace solo di parlare a vanvera. È una parola ingiuriosa e sprezzante che dal gergo della mafia, dove è usata per designare specificatamente le spie e i delatori, quelli che “fanno i nomi”, è passata nella lingua comune per indicare tutti coloro che parlano troppo e così facendo finiscono sempre per dire qualcosa che farebbero meglio a non dire e a tenere per sé; quelli che hanno nel parlare la stessa meccanicità e ottusità delle oche, delle cornacchie e dei corvi; quelli che amano sentire la propria voce riecheggiare nelle proprie orecchie per assaporarne la rumorosità: quelli che, come scrive Leonardo Sciascia nel 1961, «dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre». Di origine onomatopeica – riproduce il verso delle oche, delle anatre e delle rane – la parola ha un grande fascino espressivo che accresce la sua efficacia spregiativa. Un sinonimo altrettanto espressivo e insultante è “parraparra”, pur esso di ambito mafioso.
Sparàgno Individuo tirchio. È un sinonimo regionale, centro-settentrionale, di → spilorcio, e merita di essere citato, insieme al suo diminutivo “sparagnino”, che risulta più spregiativo, sia per il fascino aspro e duro che emana dalle sue sillabe, sia perché è una parola moribonda, destinata a scomparire presto anche dalle pagine dei dizionari. Deriva dal verbo “sparagnare”, che nell’Italia settentrionale e centrale è – era – usato nel senso positivo (siamo in area calvinista, terra di mercanti e di banchieri) di ‘risparmiare’.
supplì Persona maligna, da cui non si sa mai cosa aspettarsi, che riserva sempre qualche sorpresa. È un termine romanesco, irriverente e divertente, che diventa un insulto quando si scopre che la persona in questione è veramente capace di fare brutti scherzi. Deriva dal nome delle crocchette di riso tipiche della cucina romana che possono essere farcite di varie cose: carne, rigaglie e funghi oppure anche mozzarella o provola e chissà che altro. Non a caso, la parola francese da cui i romani hanno derivato “supplì” è surprise, ‘sorpresa’, e le sorprese che un uomo e una donna nascondono dentro di loro spesso non sono piacevoli.
trombóne Uomo sessualmente molto dotato, in grado di dare prova di grandi prestazioni amatorie. Vedi → stallone. La nequizia dei tempi ha riportato a galla, in modo del tutto inconsapevole, il significato che la parola trombone aveva nel Quattrocento, all’epoca dei frizzi e dei lazzi dei Canti carnascialeschi, un’epoca in cui “tromba” era uno dei tanti nomi del membro virile. Nell’uso comune, il termine, perduto il suo nobile significato erotico, ha conservato quello, ben più spregiativo e offensivo, di persona che parla troppo, che esprime in modo enfatico idee e concetti insignificanti o mena vanto di imprese e meriti superiori a quelli reali. Un trombone, in senso anche più offensivo, è pure un attore che recita con eccessiva affettazione.
Webete L’ebete, l’ottuso del web. Gli stupidi esistono da che mondo è mondo ma, come è tipico delle male erbe, non solo si riproducono senza sosta, ma sono anche capaci di mettere radici dappertutto, attecchendo in ambienti nuovi e diversi. Così, nell’era dei social, è nato e si è diffuso lo stupido informatico: uno che ha una discreta competenza in campo tecnico ma della rivoluzione informatica ha assorbito gli aspetti deteriori. Le risorse della rete non l’hanno reso, come ci si sarebbe potuto aspettare, più acuto, più saggio e magari più intelligente, ma soltanto più cretino di prima: un cretino informatico, credulone e nello stesso tempo saccente e vanesio. Facebook, Instagram e Twitter, specialmente Twitter, sono diventati il palcoscenico, anzi, il megafono della sua idiozia, che diffonde a piena tastiera. E tramite lui l’idiozia prolifera e fa massa: e una massa di idioti pronta a credere a tutto ciò che legge sul web è una massa di idioti pericolosissima, perché è in balia di chiunque voglia strumentalizzarla per i suoi scopi. Il termine è nato negli anni Novanta del secolo scorso in senso neutro, per indicare chi si occupava professionalmente del web. Poi, nell’agosto del 2016, Enrico Mentana l’ha ripescato, o riconiato per conto suo, per indicare chi approfitta del web per portare a conoscenza del mondo le proprie sciocche opinioni praticamente su tutto, dal terrorismo ai terremoti agli immigrati alla cura delle emorroidi, e ne ha decretato il successo – il web promuove se stesso e produce webeti – legittimandolo come neologismo dell’angloitaliano. La parola, per altro, è di formazione linguistica corretta.
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