Il mondo del lavoro è profondamente cambiato negli ultimi anni, anzi potremmo dire negli ultimi decenni. Non solo sono progressivamente scomparse le grandi fabbriche e le catene di montaggio con il lavoro ripetitivo e parcellizzato, ma si sono trasformati i rapporti stessi all’interno delle imprese. Sono state superate le vecchie mansioni, rigide e incasellate, e fin dove è possibile si è estesa una partecipazione più dinamica ai processi produttivi.
L’innovazione tecnologica ha fatto superare di slancio i vecchi modelli industriali e la logica della connessione rende sempre più facile e insieme necessario un ampliamento delle possibilità operative delle imprese coinvolgendo competenze esterne per compiti strettamente finalizzati.
E nello stesso tempo sta diffondendosi una dinamica sociale che fa crescere quella che gli americani chiamo “gig economy”, quell’economia fondata sui lavoretti, sugli impieghi momentanei, sull’aiuto in casi particolari. “Gig” erano definiti i complessini musicali formati da universitari che si offrivano per pochi dollari per animare feste di laurea o di compleanno. “Gig” vengono ora definiti quei compiti che richiedono poche ore e sporadicamente: aiutare una famiglia nei giorni del trasloco, lavorare per una settimana nel periodo della vendemmia, dare qualche ora di ripetizione agli studenti in vista di un esame.
Questi lavori fanno parte della nostra realtà quotidiana. Aiutano le famiglie e le imprese a risolvere un momentaneo problema, e aiutano chi non ha lavoro o vuole integrare il proprio salario a trovare un’occasione di breve durata. Proprio per questo erano stati introdotti negli anni scorsi i “voucher”, dei buoni che permettevano al datore di lavoro di pagare con tutti i crismi della legalità, e con i relativi contributi pensionistici e assicurativi, un lavoratore, uno studente, un pensionato per impegni per loro natura limitati e temporanei.
Ma se il mondo del lavoro è cambiato portando con se anche la necessità di adattare regole e formalità, quello che drammaticamente è rimasto fermo a due secoli fa è il sindacato e in particolare la Cgil.
Il sindacato della sempre triste e arrabbiata Susanna Camusso ha infatti lanciato, raccogliendo tre milioni di firme, tre referendum per modificare queste regole. In particolare chiedendo di ripristinare l’articolo 18, con una richiesta che è stata tuttavia bocciata dalla Corte Costituzionale, di abolire i voucher e di mantenere la responsabilità solidale negli appalti.
Il Governo ha dapprima fissato la data del referendum (28 maggio) poi ha messo a punto un provvedimento per accettare le richieste della Cgil e quindi evitare il ricorso alle urne in un momento in cui, come ha detto il premier Gentiloni, “non possiamo permetterci una nuova campagna elettorale”.
Sul tema degli appalti una revisione delle norme può anche essere opportuna, ma poteva essere fatta per via legislativa. La volontà di abolire i voucher appare invece del tutto anacronistica, strumentale, ideologica e socialmente pericolosa. Alla base di questa richiesta infatti c’è l’idea che ogni lavoro sia necessariamente dipendente, rigidamente regolamentato e a tempo indeterminato. Ma non è più così. E pretendere di ingabbiare il sistema con una normativa severa e rigorosa rischia di avere come effetto la riduzione dei lavori disponibili oppure il ricorso al mercato sommerso e ai pagamenti in nero.
Per molti aspetti il sindacato, in particolare la Cgil, è apparso in questa occasione sostanzialmente irresponsabile in questo momento politico ed economico particolarmente complesso. Un sindacato incapace di comprendere e governare i cambiamenti sociali. I voucher erano un modo semplice, facile, moderno di pagare collaboratori sporadici garantendo una equilibrata protezione giuridica e fiscale. Ma era un sistema che aveva il difetto di escludere il sindacato.
La richiesta di abrogazione è stata accolta dal Governo per non gettare benzina sul fuoco dello scontro sociale (e per non creare nuove difficoltà al già sofferente Partito democratico). Ma questa è stata l’ennesima occasione che ha dimostrato l’arte italiana di complicarci la vita da soli.
L’Italia avrebbe bisogno di pace sociale, concordia e sana dialettica politica. Invece abbiamo i nostalgici della lotta di classe e della burocrazia. E abbiamo i professionisti del populismo e delle alchimie politiche. Con una Cgil che anziché guidare le dinamiche sociali le vuole soffocare imponendo schemi ottocenteschi che non aiutano né il lavoro, né i lavoratori.
You must be logged in to post a comment Login