-Mauro della Porta Rodiani Carrara Raffo di casa Savelli: settant’anni di varesinità. Che esagerata ricorrenza è, il 27 marzo 2017?
“Felice, dolce, gratificante. Amo Varese, l’ho sempre amata, continuerò ad amarla. Bella città e anche bella gente, per lo più. Sfatiamo un dire di segno opposto, conformistico, sbagliato”
-Bella città e bella gente ieri e anche oggi, per lo più?
“Oggi città decaduta e decadente, con gente che ne vorrebbe riscattare i fasti dopo gente che li ha offesi”.
-Impresa possibile?
“Desiderio condivisibile: perché negarsi l’ottimismo, pur fra tanto circolare di segnali, e opere, che inducono al pessimismo?
-Cominciamo dal principio, dallo sbarco a Varese dell’infante MdPR eccetera…
“Sono nato a Roma, poi venni traslocato altrove per ragioni di lavoro del capofamiglia. Un giorno mia madre Anna Maria, desiderosa di sfuggire al caldo africano di Catania, dove papà Manlio dirigeva l’Ente provinciale per il turismo, chiese di effettuare una ricognizione in terra prealpina. Nella zona della Valmorea aveva lavorato in anni precedenti e viveva il suo genitore. Venne, vide, respirò. Aria buona. E decise di tornare, stabilendosi qui. Papà ottenne il trasferimento, iniziammo l’avventura bosina. Vi avrebbero partecipato anche Silvio e Annamaria, mio fratello e mia sorella. A Varese sarebbero poi nate dal matrimonio con Sissi, l’indispensabile Sissi, le mie figlie, Alessandra e Federica, e i miei nipoti, Giulio e Tommaso”.
-Quali i più lontani ricordi?
“Quelli della scuola elementare, che mi vide girovago tra gli istituti di Barasso, Casbeno e via Como. Un ricordo su tutti: il tratto di esemplare educazione dei compagni di classe. E la loro intensa tenacia a impegnarsi. C’erano figli di imprenditori, professionisti, impiegati. Ci davano dentro, come da obbligo di rango sociale. C’erano figli di contadini e operai: ci davano dentro ancora di più, come da orgoglio di ultima fila. Un maestro severissimo: il Rossinelli di via Como. Guai a sgarrare. Reprimende verbali e punizioni fisiche: allora si usava, era l’accettata regola”.
-Predisposizione allo studio?
“Poca, se non zero, fin dall’iniziale approccio a banchi e cattedre. Ancora meno in seguito. Le medie rappresentarono un calvario: sempre rimandato, e infine bocciato in terza. Rifiutavo d’apprendere le cognizioni impartite, preferendo zigzagare da anarchico fiutando l’estro personale. Che so, elenchi di fiumi in base alla lunghezza, rassegne di città secondo la popolazione, filotti di curiose date storiche e di molto altro ancora”.
-Una precoce ribellione culturale…
“Una naturale inclinazione alla libertà di pensiero e dunque d’azione. Innanzitutto intellettuale. Ovviamente non compresa dagl’insegnanti. E sopportata con disagio dai genitori. Non c’è padre o madre che si rallegri del pessimo rendimento scolastico d’un figlio, pur se egli manifesta voglia di letture, approfondimenti, ricerche varie e perfino dotte”.
-Alle superiori la tradizione si confermò?
“Si rafforzò. Andai sciaguratamente di male in peggio. Feci il liceo scientifico, e tenni fede all’uso di recuperare d’estate il tempo perso nei mesi precedenti. Esami ogni anno, mai una promozione. Alla maturità ammesso con la media del cinque, ma solo perché i voti in filosofia, storia e italiano bilanciarono il disastroso verdetto delle altre materie. Un professore mi chiese: cosa sono le putizze? Non so, risposi. Ma so che è scritto a pagina 252 del libro di scienze. Se è vero, replicò guardandomi in tralice, ti rimandiamo invece di bocciarti. Era vero. Per chi lo ignora: le putizze sono delle pietre”.
-L’amico del cuore?
“Nessuno. Molti amici di gioiose bigiate, i fratelli Ponzellini specialmente. La preferita: migrare in barca dall’altra parte del lago, a Bodio. E mangiare panini da un tizio che li confezionava da artista del settore alimentare, in particolare con salame d’asino. Difficile che non riuscissimo a farla franca. Fabio, uno di noi, era eccezionale nell’imitare le firme dei parenti: gli dobbiamo pacchi e pacchi di giustificazioni andate a buon fine”
-Questo era il passatempo illecito. E quello lecito?
“Il cinema, al top delle mie passioni assieme alla lettura. Papà fruiva di una tessera dell’Anicagis, e la usavo io. Praticamente non c’era giorno in cui non vedessi un film, preferibilmente western e commedie americane. Qualche volta mi accompagnava mio fratello, ma poi troncammo il sodalizio dello schermo: gusti differenti. Come, del resto, in letteratura”.
-E il primo, grande amore?
“Non nacque a Varese, ma a Rimini. Lì stavamo ogni estate, e a lungo, in villeggiatura. Perché allora c’era la villeggiatura, non c’era la vacanza. Conobbi una coetanea di Como, intelligente prima che bella: Maria Luisa. C’innamorammo. Poi la storia s’esaurì, come succede alle storie d’un sacco di sedicenni. Non si è esaurita l’amicizia: ci sentiamo e vediamo ancora adesso, qualche volta. Con i rispettivi coniugi”.
-Torniamo agli studi. L’università segnò un cambio di marcia?
“Affatto. Ci misi dieci anni a laurearmi. Ma per forza: mi iscrissi, bongré malgré, a giurisprudenza, e della giurisprudenza non m’importava un fico. Frequentare, una noia. Dare esami, di tanto in tanto. Interessi alternativi: un mare. Tra di essi la politica, che aveva cominciato a intrigarmi quando un amico mi convinse a entrare nella Gioventù liberale. L’ideologia del Pli, allora partito importante, corrispondeva alla mia, di radicale dall’anima tricolore. Mi sentii a casa. E conobbi un’epoca d’oro, segnata da Piero Chiara segretario provinciale e Maurizio Belloni presidente. Belloni, avvocato, era una figura elegante, riservata, fascinosa: ricchissimo, a capo di istituzioni varie, tra le quali l’Automobile Club e l’Ente provinciale per il turismo, aveva l’abitudine di non tenere mai soldi in tasca. Invitava gente al caffè e al ristorante, faceva acquisti nei negozi, quindi salutava con cenno ieratico e veniva ricambiato da generale deferenza. Alla fine di ogni mese, il suo segretario passava a onorare i conti in sospeso. Belloni, dopo papà Manlio, è stato il mio maestro di vita. Con i liberali avrei successivamente condiviso campagne elettorali, candidature alle elezioni locali e nazionali, iniziative propagandistiche eccetera. Fui consigliere provinciale dal ’75 al ’78, costretto al ritiro causa debiti di gioco: Chiara s’impegnò a saldarli, ma in cambio pretese le dimissioni. Ricevendole. Per mio conto mi sarei presentato nel 2011 come aspirante sindaco. Nome della lista: la Varese che vorrei. Presi il 2,64 per cento e, avendolo sottratto al centrodestra, costrinsi il borgomastro uscente Fontana al ballottaggio”.
-La faticata laurea servì a poco…
“A nulla. Resi contenti i genitori. Stop. Provai a fare l’avvocato, qualche tempo dopo. Ma non era il mio mestiere, possono testimoniarlo i due colleghi, Balzarini e Valoroso, con cui aprii e chiusi uno studio. Lo fu invece l’occuparmi di un ente pubblico. Successe quando mi misero a dirigere l’Azienda autonoma di soggiorno, presieduta dal notaio Luigi Zanzi. Fu un periodo, dal ’68 al ’74, straordinario. Varese, che aveva vissuto una fase di splendore alla fine degli anni Cinquanta e al principio dei Sessanta, aveva ancora l’energia, la volontà, direi la vocazione a rinnovarsi e progettare, fidare nel futuro e adoperarsi per prepararlo al meglio. Zanzi era un vulcanico trascinatore: quando ti chiamava nel suo ufficio non sapevi mai se ti avrebbe trattenuto qualche ora a programmare e discutere o costretto a missioni di un giorno intero o più giorni in diverse parti d’Italia per trovare persone, esempi, finanziamenti utili alla causa varesina. Erano anche, i suoi desiderata, circostanze per eventuali digressioni extrafamiliari: qualunque ritardo trovava giustificazione nelle pressanti incombenze imposte dal presidente. L’osservatorio astronomico di Campo dei fiori, i campi di tennis delle Bettole, il parco e la piscina alla Schiranna devono la loro realizzazione anche a quest’uomo. Soprattutto a quest’uomo”.
-All’epilogo della direzione dell’Azienda di soggiorno e alla rinunzia a proseguire nell’attività forense che cosa seguì?
“Seguì la scelta di dedicarmi all’azzardo, a una laboriosa vita da scioperato. Non si deve pensare che il gioco sia solo divertimento. Lo è, forse, un poco. Ma, a dir meglio e per vero, non lo è assolutamente. Giocare richiede impegno, fatica, applicazione. E abilità, intuizione, esperienza. Ci si dev’essere portati, naturalmente. Ma bisogna unire al talento l’impegno. Ciò che per un tempo non breve decisi di fare. Fino ad allora la mia dimestichezza era stata soprattutto con gli scacchi, della cui associazione locale ero stato nominato presidente”.
-L’esperienza d’avvio dove e con chi?
“In un bar accanto al distributore di benzina del notissimo Aldo, in via Sanvito. Orari d’ufficio, mattina e pomeriggio. Partite a carte e dadi con habitué o clienti occasionali. Vincite e perdite. Maggiori le prime delle seconde. Nessun cenno dell’attività ai familiari: a mia moglie raccontai che prestavo opera in un’agenzia immobiliare. Mi copriva l’amico Renzo, che quel mestiere lo praticava davvero. E se qualcuno gli chiedeva notizia di Raffo, confermava la mansione da me dichiarata. Durò a lungo, ma non poteva essere per sempre. Finì che dovetti rientrare nei ranghi della normalità, diciamo così. Che presero le vesti di agente d’assicurazioni. Per davvero, stavolta. Sarò sempre grato a un altro amico, Leonardo, che m’insegnò a tenere corsi di formazione in questo settore e mi riconciliò con il lavoro”.
-La stagione del gioco si svolse al fianco di Chiara…
“Ci unirono le carte, il biliardo, il casinò. Il mio battesimo avvenne a Campione d’Italia. Ci andammo insieme. Io persi tutto, lui mi aspettava all’uscita con un rotolo di franchi in tasca. Cinquemila. Me ne regalò la metà. Li aveva vinti giocando contro un tizio che puntava forte. Piero, pur con somme modeste, faceva il contrario dell’altro, che continuava a rimetterci fiches, cioè quattrini. Per levarsi di torno colui che riteneva un menagramo, gli diede i cinquemila franchi. Chiara li volle spartire con me perché, disse, era stato lui a trascinarmi là: si sentiva responsabile”.
-Chi ci ha rimesso, nelle sfide a carte o altro tra voi due?
“Sono felice di possedere alcune opere d’arte di cui Piero si privò, per sanare qualche debito di gioco con me. Eccone lì un paio sulla parete del mio studio: un Montanari e un Rapp. Quello di Rapp è il disegno della copertina del romanzo ‘La stanza del vescovo’, quello di Montanari ritrae una scena di partita a carte in spiaggia, sotto l’ombrellone”.
-Ciò che poteva sembrare un altro azzardo è l’attività di MdPR giornalista e scrittore: cominciata per caso e divenuta di successo…
“La scintilla scoccò nel ’92. Lo storico quotidiano locale, la ‘Prealpina’, mi chiese un articolo sulle elezioni americane. Accettai volentieri. Uscì il 31 ottobre, con la firma Della Porta accanto a quella Raffo. Scelsi così non per snobismo, ma per distinguermi da mio fratello, ben più noto di me essendo popolare insegnante di liceo. La passione verso la politica Usa era di vecchia data. Già all’inizio degli anni Cinquanta l’argomento, di cui leggevo sui giornali del pomeriggio che papà portava a casa tornando dall’ufficio, catturò la mia attenzione. Successivamente, sfogliato il libro “Le quarantotto Americhe” di Raymond Cartier, la curiosità dilagò diventando gratificante mania. Di Stati Uniti so davvero tanto, forse tutto. E ne ho scritto, detto, argomentato su diverse testate giornalistiche e radiotelevisive. In occasione dell’ultima sfida presidenziale, tra la Clinton e Trump, sono stato per esempio ospite fisso di Bruno Vespa, a “Porta a porta’”.
-La fama nel settore è tuttavia venuta da una rubrica apparsa sul Foglio dal titolo “Pignolerie”…
“Accadde nel ’96. Uscì il nuovo giornale di Ferrara: mi sfiziava, aveva un’aria chic, e iniziai a collezionarne i numeri. Mi cadde l’occhio, a un certo punto, su inaccettabili castronerie giusto a proposito di cose americane, e mandai via fax lettere di obiezione. Vennero pubblicate. Poi, non più. Allora inviai una nota di protesta al direttore, assai pepata: denunziavo, citando Wilde, l’ignoranza giornalistica rivelatrice di quella della comunità dove alberghiamo. Anziché indignarsene, lui la mise in pagina, commentando: che ne direbbe di avviare una rubrica per noi? Detto e fatto. La pignoleria d’esordio apparve il 5 settembre di quell’anno, un giovedì. Proseguii sino al 2009. Ogni giorno mi documentavo leggendo sette quotidiani, più un ricchissimo carnet settimanale di periodici”.
-Intanto lo spettro delle collaborazioni si ampliò…
“In precedenza avevo già cominciato a firmare sul ‘Giornale del Popolo’ di Lugano e realizzato un documentario per la tivù svizzera sull’azzardo, intitolato “Mal di gioco”. Durante l’inchiesta tornai sui luoghi delle mie avventure, spesso incontrando vecchi compagni di tavolo verde che mi dicevano, non avendomi più visto da un pezzo e giudicando impossibile la dismissione del vizio da parte di chicchessia: pensavamo che fossi morto. Invece no, ero sopravvissuto alla dolorosa astinenza. Tra i grandi quotidiani, il primo a ospitare i miei articoli fu il ‘Giornale’ di Vittorio Feltri. Avevo scritto a lui come a tanti altri direttori millantando un precedente incontro a casa d’una certa Marta, dove -fingevo di rammentare- c’eravamo accordati per un successivo colloquio allo scopo d’una mia scribacchina cooptazione. Il colpo di teatro sorprendentemente avvenne: Feltri, ignoro se consapevole o meno della trappola, mi fece chiamare dal suo capo della redazione esteri. Stringemmo l’accordo e mi occupai di America Latina, altra mia fissa. Anche sotto la direzione di Mario Cervi, professionista eccezionale e uomo meraviglioso, mi fu concesso molto spazio. Pure il ‘Corriere della Sera’, all’epoca di De Bortoli, mi ha onorato della sua ospitalità”.
-A un certo punto le pignolerie diventarono materia di export, apparendo in altra veste su ‘Panorama’…
“Nacque, per volere del direttore Ferrara, la rubrica “The other place”. Facevo le pulci al concorrente di ‘Panorama’, cioè ‘L’Espresso’. Ci divertimmo parecchio, perché prendevo spesso in castagna editorialisti, commentatori, inviati. Tornai a Panorama, dopo averlo lasciato, durante la gestione di Pietro Calabrese che mi chiamò successivamente al ‘Messaggero’, alla ‘Gazzetta dello Sport’, a ‘Capital’, infine alla Rai. Con Onofrio Pirrotta varammo la trasmissione “È la stampa, bellezza” che andò molto bene. In Rai sarei ritornato, su sollecitazione di Luca Iosi, per sovrintendere al ‘Quiz show’ condotto da Amadeus: preparavo le domande, curando con minuzia ogni dettaglio. Vietato sbagliare. Una volta Antonio Ricci ordinò all’inviato di ‘Striscia la notizia’ di consegnarmi il tapiro, sostenendo d’avermi colto in fallo nella formulazione d’un quesito. Non era vero e gli documentai l’errore. Il suo errore. Ma non volle smentirsi. Siamo comunque diventati amici”.
-E intanto venivano dati alle stampe libri in serie…
“Raccolte di racconti, testimonianze di vita vissuta, biografie di personalità locali e non solo, saggi su svariate materie. In primis, attenzione sempre agli Usa: gli ho dedicato e gli concedo migliaia di pagine. Meglio rimandare alla bibliografia, per non indulgere a un’infinita elencazione”.
-Mai parlato, all’epoca della frequentazione di Chiara, di questo ardore letterario?
“No, mai. Qualche chiacchiera generica, ma avevamo confliggenti predilezioni di generi e di autori. Ci accomunavano solo altri interessi. Verso di lui scrittore ho tuttavia una responsabilità: averlo indotto a ripubblicare per Mondadori il racconto “Con la faccia per terra”. Era uscito negli anni Cinquanta tra l’indifferenza generale, e quando fu riproposto non ebbe l’eco sperata”.
-Le prossime novità editoriali?
“Due libri in merito alle elezioni americane, tanto per aggiungere un bel po’ a quanto sinora studiato e proposto sul tema. Un libro di racconti. Un numero unico di ‘Dissensi e discordanze’, la rivista che dirigo, su champagne, cioccolata, sigari e whisky. E poi vedremo. Vedrò. Quel che capita, capita. Nel frattempo curo i miei tre siti internet: maurodella portaraffo.com, elezionusa.it, dissensiediscordanze.it”.
-Come saranno i secondi settant’anni di MdPr?
“I più vicini impegnati nell’educare i nipoti. Ci tengo molto. Quelli a venire, chissà. Continuerò a cercare di essere sempre me stesso, impresa peraltro difficile. E a dar retta a Jacques Brel, quando afferma: occorre davvero un grande talento per diventare vecchi restando immaturi e dissennati”.
-Sfoggio civettuolo?
“No, mi riconosco una vena di bizzarria. Sono convinto che me la riconoscano anche gli altri. Non mi pongo limiti, e tuttavia ne ho il senso. Nel mio studio campeggia una definizione: ‘Sono sempre almeno in parte responsabile di tutto quanto di negativo accade. Lo so’. Dichiaro d’essere onnisciente e indispensabile, ma non è la sindrome da ipertrofia dell’ego. Solo un dovuto inchino al realismo. Che non prevede modestie, e invece obbedienza ai fatti”.
-Dai fatti alle opinioni: essere controcorrente è una virtù o un vizio?
“È uno stato d’animo. Un modo di vivere. Un impulso naturale. Groucho Marx mi trova concorde: qualsiasi cosa sia, io sono contro”.
-Un bouquet di ‘contro’ da confermare o negare. Il primo: contro la Varese contemporanea?
“Sì e no. Sì, perché la vedo annaspare e forse prossima all’annegamento, se non trova la giusta bracciata per stare a galla. No, perché le sono affezionato. Lo dimostrano i miei quasi ventennali ‘salotti’, in cui ho ospitato al caffè Zamberletti personalità d’ogni genere, tutte d’alto profilo nel loro campo: cultura, politica, economia, spettacolo, sport eccetera. Potrei snocciolare centinaia di nomi, mi astengo. E lo dimostra la mia presidenza del comitato per i duecento anni della città: ne vado fierissimo”.
-Contro l’Italia contemporanea?
“Se parliamo di politica, certamente: inaffidabile, inguardabile, irredimibile. Salvo miracoli. Ma qualcuno è convinto della possibilità che i miracoli avvengano?”.
-Contro gl’italiani contemporanei?
“Ahimè sì. Prevalgono ignoranza, superficialità, rozzezza. Fenomeno senza ritorno, temo”.
- Contro l’uno vale uno?
“Assolutamente. La democrazia, aveva torto Churchill, non è il migliore dei sistemi di governo possibili. Meglio il mandarinato cinese, che scartava coloro che si presentavano per essere investiti di cariche. O l’oligarchia inglese, che premiava gli appartenenti a un apprezzato ceto sociale”.
-Contro il voto popolare, dunque…
“Si capisce. Se tirassimo a sorte per scegliere i responsabili delle sorti del Paese, forse ne otterremmo un risultato migliore di quelli solitamente usciti dalle urne”.
-Chiudiamo con modestia?
“È una mia caratteristica. Non a caso sono nato lo stesso giorno, il 17 aprile, in cui vide la luce Gesù di Nazareth”.
-Come Lui, absit iniuria, MdPR è immortale…
“Ovviamente. Muoiono sempre gli altri, diceva Totò. Sottoscrivo”.
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