Arbitri si nasce o si diventa? Questo è il problema di scespiriana memoria con relativa applicazione ai campi di gioco.
Così, a spanne, forse la risposta più logica è anche la più semplice: meglio nascere e proseguire nel cammino e attuando, così, il meglio assoluto. Ma, in mancanza, ci si può accontentare anche della seconda possibilità: quella di diventarlo, con il tempo e, ovviamente, con la pratica. Senza minimamente trascurare l’ampia rosa di difficoltà che i direttori di gara vengono a trovare sul loro cammino va pur detto, però, che in alcuni casi, sembra che una risposta – severa finché si vuole ma necessaria – faccia propendere per una duplice negazione: oggi né nati né diventati.
S’è detto e lo si ripete: il compito è difficile e il giudizio negativo non può essere esteso a quelle situazioni di incertezza che solo il mezzo tecnico potrebbe risolvere, ma restano, comunque, nella negatività di un giudizio quelle altre che pur ampiamente percepibili – anche per esempio – in televisione presentano errori che sfiorano il macroscopico.
Il non rilevato errore, oltretutto molto spesso finisce con un riflettersi direttamente sul risultato cosa che, ovviamente, aggrava il giudizio.
Peggiora ulteriormente il fatto che gli errori vengono il più delle volte anche da arbitri ritenuti capaci e non solo dalle cosiddette giovani leve rimanendo quindi nella generalità.
Ovvio, poi, che sia pure con logica cautela anche gli allenatori abbiano a puntualizzare queste situazioni nei loro commenti televisivi confortati, peraltro, nello stesso giudizio dai commentatori televisivi di ogni singolo incontro e dalle cronache.
Tempi grami dunque per gli arbitri.
Soprattutto, tempi grami per chi li subisce.
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