Il 16 marzo 1993 moriva a settant’anni Giovanni Testori, cattolico inquieto e testimone di verità, capace di metterci di fronte alla violenza più turpe e quasi blasfema (crani fracassati, corpi straziati di prostitute come in Diademata, il drogato, la bestemmia di pensarTi inesistente in una idiota realtà). Ma è – nel contempo – capace di farci credere alla forza rinnovatrice di parole carnalmente urlate.
La sua scrittura, una scrittura non del silenzio ma delle grida teatrali, misto di dialetto e di deformazioni linguistiche, non è mai facile e per nulla accogliente. E proprio questa scrittura, così turgida, così provocatoria, dovrebbe ancora inquietare le nostre coscienze e tormentare i cuori che Leopardi avrebbe definito rinsecchiti.
In una intervista Testori ebbe a dire che le sue pagine non erano più occasione di scandalo. Invece dovremmo – ora più che mai – recuperare la forza dello scandalo: certamente non quello moralistico ma quello devastante le nostre certezze o scontate convinzioni. Testori ci pone di fronte alla scelta se capirlo o comprenderlo. È una scelta esistenziale e non solo letteraria, come quella che scaturisce da questi versi che si chiudono con una rima quasi banale: “Quando Tua madre / Ti stendeva sul grigio giaciglio / baciava suo figlio / o un mostro atroce e divino, / una carne di pane e di vino?”.
La carnalità diventa per Testori lo strumento per farci capire che il nostro corpo è pensante e – come tale – generatore di domande. A questo punto sarebbe inevitabile indagare sulla ben nota potenza simbolica del vino nelle varie religioni ma lo stesso Testori ci accompagna su una strada più tortuosa e meno facile.
Pensiamo – a titolo esemplificativo – alla conclusione dell’Ambleto, opera del 1973 dello scrittore di Novate Milanese. Arlungo, fratello del defunto re danese, prepara del vino per uccidere Amleto. Ma quest’ultimo, dopo avere costretto lo zio a bere dalla coppa il vino, beve egli stesso dalla coppa avvelenata, uccidendosi. Prima di morire, però, Ambleto compie due gesti di affetto e di amore: il dono di tutti gli averi della corona al popolo e la promessa di rivedersi col suo amato amico nell’aldilà.
Testori è capace proprio di questo: trascinarci, sporcandoci, dentro vischiose sabbie mobili per darci la possibilità di respiri emozionali verso un altro modo di pensare.
Proviamo a leggere la quasi illeggibile confessione vomitata, con disperati echi linguistici, sulle nostre coscienze dal drogato di In exitu. È un cumulo delirante (e qui delirio è nel suo più profondo senso etimologico, cioè di essere fuori dal tracciato): “… a specciare, fermi,sudanti’me rane o ranette in del caldo, gementi ‘ me feti o fetini in del frecc, con in delle mani i aranz(i’ranci), i biscot (i cot) el ciculat (el lat) el Porto…”. Chi mai si aspetterebbe quel guizzo elegante di un vino raffinato, come il Porto, dopo un affannoso, ossessivo e indecifrabile elenco visionario? Ma come una pepita d’oro esiste anche questo termine nel vortice linguistico di Testori.
La scrittura di Testori non insegna ma testimonia che anche – e forse soltanto ebbri di parole (aggettivo frequente nella via crucis laica di Diademata) – possiamo avere il coraggio di accogliere la violenza più disperata, fermandoci a guardare il lenzuolo bianco in cui è avvolto il drogato di In exitu o di camminare insieme alla prostituta, lungo il sentiero vicino alla Milano-Varese.
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