Non che si abbia una particolare predilezione per le ricorrenze, perché poi in effetti ogni giorno che s’inizia e che passa è una ricorrenza. Ma tra meno di una settimana, il 23 di marzo per l’esattezza, saranno 104 anni dalla nascita di Piero Chiara, il famoso scrittore-narratore varesino o meglio sarebbe a dire luinese; o meglio sarebbe ancora a dire luinese di origini siciliane, perché il papà Eugenio era di Resuttano, provincia di Caltanissetta, che lo scrittore chiamò Roccalimata in un suo lungo racconto, Con la faccia per terra, mentre la mamma Virginia, invece, era un’autoctona del Lago Maggiore, essendo nata a Comnago, un paesino sopra Lesa.
Le cronache (che riprendono poi sempre note autobiografiche più volte citate nei suoi racconti, negli elzeviri, nei saggi e anche nei romanzi) dicono che lo scrittore nacque a mezzogiorno del 23 marzo, domenica di Pasqua, una delle Pasque più basse – crediamo – del XX secolo. E i conoscitori della sua vita dicono pure che, ormai famoso, ogni 23 marzo Piero Chiara si concedesse un giorno di vacanza speciale a Luino. Vi tornava da Varese, guidando di persona la sua Volvo station-wagon, passeggiava sul lungolago, stazionava sul porticciolo con alla sinistra il famoso caffè Clerici, dove aveva ambientato molte delle sue storie, e lanciava uno sguardo dall’altra parte della strada, dove stava l’Albergo delle due Scale, nei cui locali superiori era nato, e la via dei Mercanti che sale su verso la chiesa, dov’era l’ingresso della sua casa. Finiva questa giornata di meditazione e di riflessione, dalle quali aveva sempre tratto linfa e spunti per le sue bellissime storie, a pranzo in un locale della zona, scegliendo ogni volta diversamente. In solitudine, un po’ come l’Emerenziano Paronzini della Spartizione, seduto in un angolo a gustare il suo sobrio pasto, prima di conoscere e di cominciare a frequentare le sorelle Tettamanzi.
Piero Chiara, scomparso l’ultimo giorno dell’anno del 1986 sul 1987, quindi poco più di trent’anni fa, è molto ricordato a Varese, dove venne ad abitare – fino agli inizi degli anni Cinquanta fu impiegato alla cancelleria del tribunale – prima in un appartamento di Palazzo Sciarini (edificio collocato tra via Vittorio Veneto e via Magatti, costruito negli anni del ventennio fascista) e infine agli inizi di via Metastasio, sulla destra salendo da corso Europa (oggi quello slargo porta il suo nome), in un piccolo ma signorile condominio, all’ultimo piano. Dalla camera del suo studio nelle giornate limpide – e a Varese per fortuna non sono poche – dominava il lago e la maestosa cresta del Monte Rosa. Un paesaggio che gli apparteneva, che gli era nel cuore.
Dicevamo che Chiara è molto ricordato nella nostra città, a Varese. In un certo senso fin troppo, e nessuno ce ne voglia male, e forse nemmeno a buon diritto. Nella città che lui aveva eletto come sua, ma perché soprattutto vi si trovava bene in quanto tollerante e riservata. È impressione di chi l’ha conosciuto bene per davvero – poche persone in verità – che Chiara fosse altrettanto riservato e poco incline alle confidenze, alle vere confidenze almeno.
Gli piacevano molto i giochi con le carte e il bigliardo, di cui si vantava d’essere un esperto, e le cui sale frequentava fin da giovane nei bar del centro. Il suo modo di lavorare è noto. Già segretario politico cittadino e provinciale del Partito liberale italiano – allora la sede si trovava in via Bernascone, sopra il caffè Italia, oggi sede di una cartoleria –, usava per lo più quegli uffici come luoghi di riservata solitudine per buttare giù le pagine dei suoi racconti o dei romanzi che scriveva e riscriveva sempre a mano, e che poi, il mattino successivo, la segretaria Gigliola Spozio gli faceva ritrovare compiutamente battute a macchina.
Molti pomeriggi lo si poteva incontrare a passeggio sotto i portici. Sempre molto elegante. La lobbia grigia, il cappotto di cammello, i pantaloni sempre bene stirati e con una riga perfetta, le scarpe lucidissime. Rispondeva al saluto plateale – anche di noi ragazzini rispetto a lui – con un semplice cenno del capo, senza tanti entusiasmi o smancerie. La sua governante, la signora Pina, quando usciva di casa gli diceva: Te me parèt ül principe del Gas. Voleva dire del Galles.
Sono meritevoli tutte le iniziative che si tengono ancora a Varese per celebrarne la memoria. Ci piacerebbe, se possibile, che qualche soldo venisse speso per acquistare suoi libri – anche in edizione economica – da distribuire nelle scuole. Farlo conoscere come persona, è chiaro, ormai non è di certo possibile. Ma almeno come scrittore sì. Temiamo che questo genere di ricordo, specie tra i giovani, a Varese, si stia un po’ annebbiando.
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