Si è aperta l’8 marzo a Palazzo Reale la mostra che promette di essere il principale evento culturale milanese di primavera. Già dal titolo, “Manet e la Parigi moderna”, l’esposizione afferma un taglio interpretativo ben preciso, che parte dall’artista per indagare l’ambiente in cui si è formato e che a sua volta ha contribuito a plasmare con le sue opere. Non si tratta dunque di una mostra monografica sul grande padre dell’Impressionismo, ma piuttosto di una panoramica su una città che a metà Ottocento rappresentava il motore del cambiamento epocale di mentalità che stava investendo l’Europa. E con l’ambizione, dichiarata esplicitamente dagli organizzatori, di condurre una riflessione sul ruolo delle città, e di Milano in particolare, nella fase di grandi mutamenti che anche noi stiamo attraversando.
Nato nel 1832 in una famiglia borghese, raffinato ed elegante, Manet non era certo il tipo dell’artista rivoluzionario, trasandato e bohèmien, che siamo soliti associare agli innovatori. Era invece innamorato della mondanità e desideroso di successi e riconoscimenti. Per tutta la vita cercò di “conquistare il Salon”, cioè di convincere la maggiore istituzione artistica ufficiale ad accettare la grandezza della sua arte. Quando nel 1874 alcuni suoi amici come Monet, Degas e Renoir organizzarono una mostra indipendente presso lo studio del fotografo Nadar, dando il via ufficiale all’Impressionismo, Manet non volle partecipare a questo gesto di rottura. Ma restò loro amico e ispiratore, così come era amico dei grandi intellettuali del tempo. Baudelaire, Mallarmè, Zola lo apprezzavano ed erano da lui ricambiati.
Di Zola Manet dipinse anche un ritratto memorabile, che domina la prima sala della mostra, dedicata alla cerchia del pittore. È una tela del 1868, momento in cui stava realizzando alcune delle opere più dirompenti, che può essere considerata manifesto dei temi fondamentali della sua arte, molti dei quali saranno affrontati nelle sale successive. Zola appare seduto al tavolo di lavoro, coperto di libri, di carte e di oggetti che formano una superba natura morta. L’abilità di Manet nel dipingere la natura inanimata, in particolare i fiori, era riconosciuta anche dai suoi critici più accaniti, ed è ben testimoniata nella quarta sala. Dietro Zola si vedono poi un paravento ed una stampa giapponese, segno della passione per il mondo orientale, altro tratto comune a molti intellettuali dell’epoca. La riproduzione di un quadro di Velázquez, ricorda invece quanto Manet fosse influenzato dal maestro spagnolo, che considerava il “pittore dei pittori”. Da lui derivò le campiture piatte, il colore steso a grandi macchie, l’assenza di prospettiva. Questa influenza fu così decisiva che la mostra vi dedica l’intera quinta sala, con lo stupendo “Pifferaio”, non a caso scelto come manifesto dell’evento milanese.
Ma sullo sfondo del ritratto di Zola c’è anche una riproduzione della “Olympia”, il quadro più scandaloso di Manet, ed emblema di tutto ciò che non dobbiamo aspettarci dalla mostra milanese. L’Olympia infatti manca, come mancano altre tele celeberrime, dalla “Colazione sull’erba” al “Bar delle Folies Bergères”. Manet in questa mostra è sì la voce solista, ma il solista di un coro numeroso e variegato. Accanto ai suoi sedici capolavori ci sono quaranta opere di altri artisti contemporanei, tutte provenienti dal Museo d’Orsay, e scelte dal direttore Guy Cogeval. Tra loro pezzi poco noti, come una sorprendente tela del giovane Gauguin e un’altra degli esordi di Cézanne. E poi disegni, maquettes, sculture, tutto per illustrare la vita parigina moderna: l’Opéra e i quartieri equivoci, la Senna e i Boulevard, i padiglioni dell’Esposizione universale e la vita quotidiana dei poveri. Quest’ultimo aspetto peraltro è soltanto sfiorato, da un quadro, “Vagabondaggio”, del poco noto Alfred Stevens, pittore in genere dedito a soggetti più convenzionali o addirittura frivoli, come l’ammiccante “Bagno”. Perché la Parigi di Manet è in ultima analisi la “Parigi in festa” dell’ottava sezione, tra balli, teatri e moda, quasi volesse dimenticare i drammi della sconfitta di Sédan e le giornate della Comune, a cui invece partecipò appassionatamente un altro artista contemporaneo, Gustave Courbet. Questo tono leggero coinvolge anche le ultime due sale, dedicate all’universo femminile, dove troviamo altri capolavori di Manet: “Il balcone”, altra monumentale tela degli anni Sessanta,e “La lettura”, con il ritratto già impressionista della moglie Suzanne e del figlio di lei, colti in un momento di intimità famigliare
Ma più di tutti colpisce il ritratto che Manet ha fatto alla sua allieva e cognata Berthe Morisot, protagonista non secondaria dell’Impressionismo, di cui riesce a cogliere il temperamento deciso di donna capace di conciliare vita famigliare e carriera artistica. Ritratto intenso, giocato su un audace contrasto di bianco e di nero, che lo mantiene al di qua della soglia dell’Impressionismo e dei suoi colori puri e squillanti, ma che rompe in modo definitivo con la tradizione accademica. Opera che soprattutto ci permette di vedere che nella pittura di quegli anni scegliere la modernità non fosse soltanto una questione di rappresentare temi e soggetti nuovi, ma anche di elaborare un nuovo linguaggio figurativo.
Fino al 2 luglio. Orari: Lunedì: 14.30–19.30 Martedì, mercoledì, venerdì e domenica: 9.30-19.30 Giovedì e sabato: 9.30-22.30 Info e prenotazioni 02 3598 1535 Tutte le opere della galleria fotografica provengono da Parigi, Musée d’Orsay © René-Gabriel Ojéda / RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari
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