Nel momento in cui scrivo il Parlamento sta cercando di trovare una soluzione al problema dell’espansione eccessiva dei voucher (buoni lavoro a ore) negli ultimi anni. Compito molto importante non tanto e non solo per evitare il referendum della Cgil quanto per riportare alla giusta fisiologia uno strumento che deve servire a tenere sotto controllo il lavoro nero scoraggiando al massimo le forme di lavoro senza tutele.
Stando ai fatti essenziali appare giusta l’idea di conservare i voucher per i lavori occasionali, di fissare un tetto per ogni lavoratore e di escluderne l’uso nell’edilizia e nell’agricoltura dove ci sono stati abusi che debbono essere stroncati. Decine di milioni di voucher nel 2016 sono troppi ma abolirli sarebbe un serio errore. Per un’opinione precisa bisogna però aspettare l’eventuale decreto governativo che si baserà sul testo elaborato in Commissione. Il “veleno” in questi provvedimenti sta sempre nei dettagli che non sono mai insignificanti.
I voucher, diversamente da ciò che troppo spesso si sente e si legge, non sono legati alla riforma del lavoro che ha preso il nome del Jobs Act. È necessario ricordare, soprattutto ai finti smemorati per feroce polemica contro il governo Renzi, che i voucher erano stati introdotti nel 2003 con la legge Biagi, resi operativi con un decreto ministeriale del 2008 e liberalizzati dalla riforma Fornero nel 2012 durante il governo Monti.
Il Jobs Act ha solo innalzato il limite economico dei voucher da 5.000 a 7.000 euro (2015) stabilendo allo stesso tempo che i committenti imprenditori (non le famiglie o i piccoli coltivatori), potessero acquistare i voucher solo con procedura telematica per assicurarne la tracciabilità. Non corrisponde quindi al vero che i voucher siano stati promossi dal Jobs Act. Meno male che il referendum su questa legge non è stato ammesso, altrimenti saremmo in pieno clima di restaurazione delle condizioni pre-riforma. Sarebbe invece bello se si discutesse a ragion veduta e senza pregiudizi.
I dati certi parlano di 700.000 occupati in più fra il luglio 2014 e la fine 2016 e di un alto numero di contratti precari diventati stabili. La riduzione della zona grigia fra garantiti e non garantiti dalla protezione sociale ha fatto notevoli passi avanti. La decontribuzione per i nuovi occupati ha naturalmente avuto i suoi positivi effetti in quanto il costo del lavoro in Italia è troppo alto, ma questi incentivi (dicono gli esperti) da soli e senza la riforma complessiva non sarebbero affatto bastati. E in tutta Europa aiuti economici di questo tipo sono stati praticati alla grande.
Chi pensa che basti una legge sul mercato del lavoro per incrementare l’occupazione sbaglia completamente. L’occupazione aumenta con l’economia che tira, con la fiducia delle aziende, con gli investimenti anche esteri, con un clima sociale positivo, con l’export da favorire in mille modi. È ben vero che siamo passati dal meno due del Pil di tre anni fa al più uno del 2016 ma è troppo poco per avere risultati importanti ed è su questa strada che bisogna proseguire.
L’obiettivo oggi è potenziare di molto, in modo graduale e continuo, l’insieme delle cosiddette politiche attive che accompagnano il lavoratore inoccupato da un posto all’altro, da un settore all’altro. In questo campo Stato e Regioni dovrebbero fare molto di più imparando dalle esperienze del Nord Europa e della Germania. Una cosa è certa, con la sua attuazione ancora da completare, il Jobs Act è una delle pochissime riforme di struttura giunte in porto negli ultimi due-tre decenni.
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