Una mostra al Palazzo Reale di Milano, beneficiario del virtuoso traffico d’influenza culturale esercitato dal Musée d’Orsay, merita la visita. S’intitola “Manet e la Parigi moderna”. Opere del sommo Edouard e di maestri coevi – Cezanne, Degas, Boldini, Monet e altri – nella Ville Lumière di Napoleone III ridisegnata dal barone/urbanista Haussman. Alto il pregio e forti le emozioni, grazie ai colori dell’empatia: è il karma del capolavorismo. Per il dettaglio artistico, leggete il pezzo di Paola Viotto. Per il resto, sentite quest’impressione (è il doveroso caso di parlare d’impressioni, trattandosi di Manet).
Il personaggio è rubricabile come avanguardista nel luogo dove viveva, nel tempo che abitava. Capiva molto, veniva capito poco. O punto. Ci vollero anni perché si facesse ammenda dell’errore d’averlo sottovalutato/ignorato. Vedeva lontano, in trasparenza, rischiarando le ombre con sorprendenti luci: dall’anima alla tavolozza. Non un cultore della bellezza, e basta. Uno scopritore della medesima, invece.
Hora ruit, è dipinto sulle meridiane. A Manet piacevano. Dichiarava: dell’attimo che passa, bisogna catturare la poesia. Affidarsi a intuito, spontaneità, sentimento. Roba da rivoluzione del cuore universale, a mezzo secolo e più dalla rivoluzione ottantanovista della politica francese. Gli andò bene: non venne ghigliottinato, pur se dovette sopportare la tortura del dileggio. A nulla servirono le denunzie degli amici, per esempio Zola, Mallarmé, Baudelaire: guardate che abbiamo a che fare con un genio, sostenevano. Parole al vento: inascoltate e anch’esse derise dal milieu dominante.
La retromarcia si rivelò goffamente tardiva, e quasi ridicola apparve l’assegnazione all’ex reietto del cavalierato della Legion d’onore, pur se promossa da certo Marcel Proust. Egli se ne adontò, ma non al punto da rifiutare un riconoscimento che riteneva dovuto al superiore spirito d’innovazione, più che alla sua modesta (modesta selon lui) anima innovatrice.
La narrazione dell’epopea di Manet ci intriga/riguarda nella contemporaneità del Terzo Millennio, e qui sta il motivo del richiamo alla vostra attenzione. È un esempio da additare, vivificare, reiterare. Fa intendere che gl’incompresi del giacobinismo mite, i riformatori dalla disinteressata generosità, gl’immaginifici in buona fede hanno un futuro. E non solo un presente, come ce l’hanno i praticanti dell’obliquità, gli adepti del conformismo, i mediocri dell’inettitudine. La ciurma che accudisce agl’interessi propri, e alla quale frega zero delle collettive sorti.
Manet si sforzò di cogliere il meraviglioso che ci avvolge, e spesso non vediamo. Valeva/esisteva nella Parigi d’allora, vale/esiste ovunque oggi. Anche tra di noi, in una piccola periferia provinciale. Il segreto è sapersi relazionare con il mito di una città, dato che ogni città ne possiede uno. Interpretarne il suo afflato epico, che non manca mai. E infine tradurlo in idee, progetti, opere. Pensare in grande, perciò. Ma cominciando dal piccolo. Dalla quotidianità che tocca ciascuno.
Dove non si tiene una Colazione sull’erba? Dove non si scorgono le acque di un Argenteuil? Dove non esiste uno scorcio cui s’affacci Berthe Morisot con un mazzo di violette? Dove non circola un Pifferaio, che rappresenta l’icona/spot della rassegna meneghina? Circola dappertutto, viene richiesto di musiche incantatrici, evoca la necessità del carisma. Proprio così. Et Manet semper.
Nella foto: Édouard Manet, Il pifferaio, 1866 Olio su tela, 161 x 97 cm. Parigi, Musée d’Orsay © René-Gabriel Ojéda / RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari
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