Carnevale: festa dei colori e dei travestimenti, rovesciamento dell’ordine costituito, inno all’ambiguità e alla fantasia, vitale allegria, capacità di rompere gli schemi per recuperare- se possibile- la spontaneità, amato e pure odiato da molti. Forse molti di noi devono fare uno sforzo per ricordarsi le più importanti maschere della tradizione italiana. Ma ecco ritornarci in mente Gianduja, uomo borghese di Asti raffigurato con un bicchiere o una caraffa di buon vino. (anche se qualcuno preferisce, percorrendo altre vie etimologiche, immaginarlo come giovanni-salsiccia, contadinotto arguto e generoso, amante di un buon vinello). E così ricordare il conte Marco Tonini Foresti, letterato bergamasco che nel ‘ 700 scriveva: “Il vino per la verità è il più prezioso licore e il più universale che all’umano genere venga preparato. Esso è il condimento e la delizia delle nobili mense e sembra a lui destinato a somministrare vigore e salute.
Ma chi era costui? Pare padrone di Arlecchino e di Brighella che certamente non disdegnavano un sorso di vino. Insomma Carnevale ci può aiutare a gettare – a mo’ di coriandoli – una manciatina di pensieri in libertà, in questo mondo che meschinamente vive tante assurde carnevalate. E allora lasciamoci trascinare dal gioco dei ricordi. Se pensiamo all’origine del carnevale nella tradizione cattolica, immaginiamo il ricco banchetto che precedeva la quaresima e se pensiamo alla letteratura ci è facile ricordare la celebre “Canzona di Bacco”, o Trionfo di Bacco e Arianna (i trionfi erano quasi i nostri carri di Carnevale) di Lorenzo il Magnifico, pubblicata nel 1490. A questo punto coniugare Carnevale e Vino e Letteratura diventa uno scherzo. Con un facile gioco associativo ci possiamo anche permettere qualche spunto di riflessione su un autore della letteratura italiana che fu ed è amato e odiato per il suo ambiguo vitalismo e per i colori densi della sua preziosa scrittura, quasi un travestimento del grigiore quotidiano. Con leggerezza carnevalesca possiamo affrontare il Vate.
È noto che Gabriele D’Annunzio, nel tentativo di creare una simbiosi tra il mondo classico e quello moderno, associò il piacere del vino, dono di Dioniso, come lo celebrò in una poesia, con l’intensità di amori sensuali. Con il fior de la bocca umida a bere/ella attinge il cristallo. Io lentamente/le verso a stille il vin dolce e ardente/entro quel rosso fiore de’l piacere/e chinato su lei, muto coppiere/guardo le forme difettosamente… Ma anche lui, che affermava di non bere vino, pur presentando un libretto dal titolo “Osterie di Italia”, può spiazzarci e sorprenderci con una filastrocca lieve e malinconica:
Carnevale vecchio e pazzo s’è venduto il materasso per comprare pane, vino, tarallucci e cotechino. E mangiando a crepapelle la montagna di frittelle gli è cresciuto un gran pancione che somiglia ad un pallone. Beve, beve all’improvviso gli diventa rosso il viso poi gli scoppia anche la pancia mentre ancora mangia, mangia. Così muore il Carnevale e gli fanno il funerale: dalla polvere era nato e di polvere è tornato.Chissà magari anche questi versi sono uno scherzo di Carnevale, utili a rompere con leggerezza i nostri schemi.
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