Tanto tuonò… che piovve. Così potremmo ben dire della scissione avvenuta all’interno del Partito Democratico, certamente non solo frutto di un incomprensibile tira-molla delle ultime battute. Si poteva evitare questo strappo? È quanto chiedono e continuano a chiedersi in molti dandosi risposte non semplici e riconoscendo che quando si litiga ragioni e torti non sono mai di una parte sola. I motivi vengono da lontano e sono di peso assai diverso. Non sono mancati approfonditi esami e non si cesserà di parlarne per lungo tempo, come si conviene per una scissione della portata di quella di cui stiamo scrivendo. Sarà nella storia dei movimenti politici.
C’è chi ricerca i motivi indietro nel tempo, nella nascita del PD avvenuta quasi a freddo tra apparati di vertice, poco condivisa dalle basi di provenienza del riformismo cattolico, socialista e laico. Una divisione sempre esistita in un Partito concepito da alcuni come esclusiva delle classi titolari delle storie delle “ditte” e pensato invece da altri per fondere quelle storie in un nuovo progetto. Sostenuto da uno Statuto per rendere la guida del Partito forte e contendibile con l’intenzione esplicita di limitare il potere di rendita delle classi dirigenti. Renzi ha agito all’interno di tale modello, ma un giudizio riduttivo e fuorviante sulla scissione sarebbe quello di ridurre il tutto a un fatto caratteriale e al decisionismo del segretario. Quello che è certo è che a Renzi piace vincere o … sbagliare da solo e le vicende dell’ultimo referendum stanno a dimostrarlo.
Altrettanto certa era la presenza di una minoranza alla ricerca di buoni motivi per andarsene avendo già ampiamente dimostrato nella campagna referendaria di non sapere stare correttamente al gioco democratico schierandosi e operando a fianco dell’avversario per il NO. Con la speranza di venire presto scacciati. Un buon motivo per fare del vittimismo, mai raccolto da una maggioranza fin troppo disponibile, pur di non rompere, nel cedere a richieste sempre nuove. Fino all’ultima, respinta al mittente, di pretendere che Renzi non partecipasse al cimento congressuale per la segreteria del Partito. No, tu no. E perché no? Perché sei troppo forte e batteresti tutti. Pretese divertenti se dette alla Jannacci o tra bambini nei loro giochi. Cose che meritano vergogna se giunte da adulti politicamente vaccinati.
Anche nelle ultime battute l’intero gruppo dirigente del PD non è apparso all’altezza del ruolo. Litigioso all’eccesso su questioni di carattere interno, ai più è apparso che i problemi veri del Paese e della globalizzazione fossero dimenticati tenuti fuori e venissero ben dopo la definizione della data di un congresso o di una consultazione elettorale. Come se fosse interesse di altri provvedere al lavoro che manca soprattutto ai giovani, alle disuguaglianze, alle povertà crescenti o se nel mondo non preoccupassero le follie dei Trump, delle Le Pen e le Brexit.
Renzi, dimissionario dopo essersi fatto carico della responsabilità della sconfitta referendaria (sacrificio personale non comune nella politica italiana) non ce l’ha fatta nel suo disegno di andare subito alle elezioni, obiettivo pure condiviso dai 5Stelle e Lega Nord. Troppo incerto il momento politico complicato come non mai. Scadenze di elezioni amministrative, legge elettorale ancora da definire (col Presidente della Repubblica che chiede di armonizzare le leggi elettorali di Camera e Senato), truppe di parlamentari che agognano a campare fino alla soglia dell’autunno per guadagnarsi una pensione, un governo in grado di lavorare e da non “segare”.
Il PD, meditando sulle sue ferite, ha tracciato un percorso per congresso e primarie con un regolamento approvato all’unanimità: congresso da subito, primarie il 30 aprile, il 7 maggio nomina del candidato Presidente del Consiglio. Elezioni? Mah. Forse. Non parliamone più fino alla scadenza naturale della Legislatura nel 2018 con un Governo in piena efficienza, al quale non mancherà certo il da fare. Una soluzione che pare ora condivisa dallo stesso Renzi e messa nei suoi programmi di rientro.
I cosiddetti transfughi dal PD Bersani, Speranza, Rossi e con loro un buon numero di deputati e senatori, alla ricerca di una identità si sono rapidamente accordati con altri usciti dal SI creando il momento il “Movimento democratico e progressista”. Che spera in un accordo con gli arancioni di Giuliano Pisapia il quale però ha più volte espresso l’intenzione di collaborare col PD. Una difficoltà per il neo movimento pure orientato al sostegno del governo Gentiloni caso per caso su singoli provvedimenti. In un quadro tanto sfilacciato che vede i nuovi Democratici e Progressisti collocarsi a sinistra del PD e a destra del SI e di Rifondazione recentemente abbandonati!
Intanto il PD va per la sua strada. Un congresso in tempi brevi già avviato, tre candidati Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano che si contenderanno la Segreteria in uno scontro vero sulla linea politica. Riavremo modo di parlare dei loro programmi. Poi appunto le primarie di coalizione il prossimo 30 aprile. Il Regolamento congressuale è stato praticamente votato all’unanimità. Buon segno perché senza regole o con norme confuse si finisce sempre con litigi. Ricordo che il compianto sindaco di Varese Mario Ossola, amico-avversario, lui DC ed io capogruppo PCI, usava spesso l’intercalare “a regola di briscola” per sottolineare come dietro le regole ed il loro rispetto ci dovesse sempre essere la massima correttezza. A partire dai giochi da osteria fino al funzionamento di ogni consesso od istituzione. Statuti e Regolamenti servono infatti per i momenti di disaccordo. Se non funzionano sono guai.
Domanda nello specifico, quanto lo Statuto del PD non perfetto e con vari difetti veri può averne contribuito alla crisi? E ancora, detto Statuto è ritenuto adeguato anche agli adempimenti in essere? Girerei la domanda all’amico Giuseppe Adamoli che è stato a suo tempo tra gli artefici di detto Statuto. Errato sarebbe attribuire al documento più responsabilità di quanto effettivamente ne ha ma penso che esso non abbia certo contribuito alla chiarezza.
D’accordo, lo statuto è nato quasi dieci anni fa con un PD a prospettive maggioritarie ma poi è stato chiuso nei cassetti mentre la situazione evolveva. Penso per esempio alla Conferenza Programmatica che avrebbe dovuto tenersi ogni anno, tra un congresso e l’altro, che non è stata mai convocata da nessuno, nemmeno da Bersani nel periodo della sua segreteria. È mancato un minimo di manutenzione e questo ha lasciato anche ultimamente spazi per confusioni concettuali tra che cosa si intende per Congresso e per Conferenza programmatica. D’altra parte come già detto lo statuto fondativo fu concepito con ben altre intenzioni e per dare vita ad un partito veramente nuovo.
Mi consento una breve digressione. Si farà un congresso con le norme attualmente in vigore. Congresso? L’attuale Statuto del PD lo definisce così ma Congresso non è se pensiamo a come si svolgono questi massimi incontri politici in tutti i Paesi democratici dell’Europa. Sono il momento in cui i delegati confrontano le varie tesi e dopo un ampio dibattito giungono al voto su una sintesi che, ottenuta la maggioranza dei voti, esprime una direzione ed una linea politica valida per tutti. Oggi nel PD i delegati provengono da “Convenzioni” di circolo e provinciali tra soli iscritti, sulla base di mozioni presentate da candidati nazionali alla segreteria. Si formano i gruppi da trasferire finalmente al Congresso dove, ossificati, rimarranno patrimonio personale del capi in separazioni correntizie inevitabili. Niente da dire per l’esistenza di correnti; tutto legittimo, vitale lievito politico ma tutto da regolamentare evitando le criticità più evidenti.
E che dire della successiva consultazione aperta ad iscritti ed elettori quale le “Primarie”? Precedenti clamorosi “incidenti” hanno già suggerito quali modifiche apportare In futuro. Purtroppo si voterà ancora allo stesso vecchio modo magari non con vere o presunte file di cinesi ma con fuoriusciti che bugiardamente si dichiareranno elettori del PD solo per interferire nella scelta del suo segretario. Un buon lavoro di lima spetterà anche sotto questo aspetto al vecchio-nuovo PD se intende lavorare non per i ristretti fatti suoi ma per l’interesse dell’intero Paese.
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