(S) Sono rimasto colpito dalla liturgia di martedì scorso, ascoltata in Duomo in occasione della messa in ricordo di don Giussani, in particolare dalla lettura biblica: il passo famoso di Qoèlet “C’è un tempo per nascere e un tempo per morire…” e così via, lo conoscete certamente. Un passo capitato per caso nel tempo delle rinnovate polemiche su testamento biologico, fine vita, eutanasia, suicidio assistito. Mi stupisce, ripeto, che la Chiesa usi un testo ‘strano’, lo definirei almeno scettico, se non proprio disperato, nella liturgia, sia pure in una specie di contrapposizione con il Vangelo che affermava: “Dio è il Dio dei vivi, non dei morti”.
(O) Il cardinale Scola ha spiegato: Qoèlet stabilisce un tempo per ogni cosa, strappandola al caos e al non-senso. Ma la saggezza del Qoèlet è ancora zavorrata dalla necessità perché, tutto ritorna sempre uguale. È una tentazione che, se non vigiliamo, ci può sorprendere e abbattere fino a farci perdere il valore della vita come dono che conduce ad affrontare anche la morte, in tutta la sua dolorosa drammaticità, come abbandono. Mi sembra chiaro anche nell’Antico Testamento l’uomo non è padrone del tempo e delle azioni che il tempo detta: nascere e morire, amare e odiare, costruire e distruggere. Ma Cristo supera il cerchio della vita e della morte, c’è un senso in tutto, anche nell’approssimarsi della morte. O forse qualcuno pensa che basti illudersi che la morte sia lontana, perché si possa non tenerne conto?
(S) Oggi la saggezza di Qoèlet non dovrebbe portarci, appunto, dalla necessità alla libertà? Anche alla libertà di nascere e di morire nelle migliori circostanze, nel miglior modo possibile? Detto in altri termini, può lo Stato, anzi una maggioranza di rappresentanti pretendere di stabilire che cosa è vita e che cosa è morte? E condannare una persona ad una vita di dolore, magari per molti anni, magari fin dalla nascita? Non è una cosa così personale da dover essere lasciata alla coscienza del singolo? Ovvio che ‘far nascere’ è una decisione presa per conto di un altro, che ‘far morire’, comunque si pratichi l’eutanasia attiva è ben diverso che il ‘lasciarsi andare’ non solo del suicida, ma pure di tanti, vecchi o disperati. Il confine è diventato labile, tra l’assoluta indisponibilità e una amplissima libertà di violare quel “tempo per vivere e tempo per morire” ci si presenta una gamma vastissima di possibilità. Al singolo la libertà di decidere, lo Stato gliene dia la possibilità. Vi riporto l’appello di Pierluigi Battista, di solito prudente, che sul Corriere scrive: Si è anche sostenuto che è meglio nessuna legge anziché una legge troppo invadente che non rispettasse la sfera di autonomia delle famiglie in collaborazione con i medici. Ma poi esiste un momento della decisione in cui deve essere chiaro chi ha l’ultima parola, sia pur entro limiti accettabili, senza che questo momento supremo possa essere deciso di volta in volta da un giudice investito di una funzione supplente rispetto a una legge che non c’è. Se dunque per una volta la politica si mostrasse adulta e seria, se venissero dismesse le bandiere delle guerre di religione e si arrivasse in tempi brevi a una legge sostenuta da una larga maggioranza trasversale, come è giusto che sia nelle grandi scelte eticamente sensibili, si potrebbe pensare che la politica sia capace di impegnarsi in qualcosa di nobile in ciò che resta della legislatura. I cittadini, di tutti gli orientamenti, apprezzerebbero questa prova di serietà.
(C) Sinceramente, questo appello alla politica trasversale, a dismettere le guerre di religione, mi lascia ancora più perplesso della chiassosa iniziativa di Cappato con Fabo. Lo stile dei radicali è questo, non accettare che la realtà sia piena di contraddizioni, che il desiderio incontri il limite della materia, della finitezza, pretendere che tutto sia disponibile. Ma pensare che lo Stato tracci un confine etico tra la vita e la morte e chiamare questo ‘nobile politica’, mi confonde. Non riesco a pensare, invece, se non ad una difesa totale della vita, da parte dello Stato. Se potesse stabilire un confine, lo potrebbe spostare a piacimento anche molto più in là e per motivi meno degni che non quello di lenire sofferenze fisiche o morali ’intollerabili’. È già capitato, non vi devo spiegare come e quando. Similmente per il nascere. Come può venire in mente di dichiarare una persona ‘figlia di due padri e di nessuna madre’? Cari giudici, escogitate un artificio migliore, se proprio volete dare figli a coppie LGBT! Chiamatelo affidamento, tutorato, potestà qualsivoglia, ma non paternità o maternità. Le parole sono importanti quanto le cose, quando significano e indirizzano il destino.
(S) Tu vorresti tornare al destino greco, alle Moire o Parche, che tessono il filo della vita, lo misurano e lo tagliano. Atropo, l’ultima, è quella che lo taglia, è il simbolo della morte inesorabile, a-tropos, colei che non muta né può mutare.
(C) Al contrario, deploro questa attrazione per la morte che trasforma l’antropos-filia, l’amore per l’uomo, in atropos-filia, in un desiderio di morte. Basta la caduta di una consonante a confondere le idee. L’uomo è fatto per la vita, il desiderio di morte è una patologia che può e deve essere curata. Forse Fabo non aveva tutti i torti a lamentarsi dello Stato, ma non per non aver ricevuto i mezzi e la possibilità di suicidarsi ‘degnamente’ in patria, ma per non aver ricevuto abbastanza per poter vivere ‘degnamente’ nonostante la sua condizione. E ti assicuro che quelli che vogliono vivere degnamente già lo fanno, nonostante tutto, soprattutto nonostante la miseria di aiuto pubblico, a cominciare dalle primissime cure neonatali, per finire con l’assistenza ai portatori, giovani e anziani, di malattie degenerative. Chi non ci crede, provi a incontrare i ragazzi dell’Anaconda e a interrogarsi, vedendoli in azione, sulla loro presunta (in)felicità.
(O) Se ci sarà ancora l’occasione, li veda recitare ne ‘I MiserAbili’. Oltre ad ammirare sorprendenti capacità interpretative, capirà perché quel genio laico di Victor Hugo non immagina che a suicidarsi siano i ‘miserabili’, ma il servo della legge, l’integerrimo Ispettore Javert, incapace di accettare il dono della vita ricevuto dal suo perseguitato, il ‘miserabile’ Jean Valjean. Quando si raggiungono i livelli estremi del dolore, della necessità, dell’impossibilità a sussistere, non deve dominare la legge, che porta alla morte, ma l’amore e il perdono.
(S) Sebastiano Conformi (O) Onirio Desti (C) Costante
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