Il nostro Arcivescovo ha accolto nella basilica di San Vittore tutti i cristiani che vivono nel territorio del decanato di Varese per dare inizio alla visita pastorale che proseguirà nelle varie parrocchie da parte del suo vicario. Il “convenire assieme” di tutti i battezzati attorno al Padre e Pastore è stato segno di unità: il cardinale ha ascoltato le domande e le richieste dei suoi figli. Non in una celebrazione liturgica, né tanto meno in una conferenza, piuttosto in un’assemblea di stile sinodale. Cioè: un ascoltare per poi poter camminare tutti assieme come Chiesa che è pellegrina in Varese, in questo particolare tempo storico.
Chissà se tra i partecipanti all’assemblea qualcuno avrà ricordato le parole poco compiacenti dell’Arcivescovo, pronunciate alla televisione, riguardanti la presenza della Chiesa (cioè di tutti i battezzati!) a Varese e a Lecco. Non sappiamo a che cosa egli si riferisse. Secondo noi, voleva rapportarsi alla felice stagione dell’immediato post-concilio, quando Varese era feconda di opere e soprattutto i giovani seguivano l’esempio e la parola di don Giussani, e raffrontare quell’età con quella attuale.
A quei tempi, era la Chiesa che desiderava andare incontro al mondo, che fino a poco tempo addietro vedeva come un insidioso nemico, ma con cui la voce profetica di papa Giovanni XXIII e quella sapienziale di Paolo VI voleva entrare in dialogo. Si pensava, allora, che la fede non doveva più portare i credenti a separarsi dal mondo, che dovevano cessare le ostilità nei confronti con la modernità.
Oggi la situazione si è ribaltata: è il mondo, con le sue tragedie, e l’uomo, con la sua solitudine, che chiedono aiuto alla chiesa. Se negli anni Sessanta cantavamo che “Dio è morto”, oggi assistiamo al suicidio dell’uomo e solo il desiderio di trascendenza, dello spirituale, della speranza ci riconduce ad una fede non ridotta a pia pratica, ma vissuta alla sequela di Cristo Gesù.
Contemplare la barca della chiesa in mezzo ai flutti della storia e tenere le mani in tasca è uno scandalo. Se qualche missione non ha dato frutto, se qualche evangelizzazione è rimasta senza risultato è perché l’impegno non è avvenuto in obbedienza del Vangelo, nella docilità delle sue indicazioni e nella ricerca della sua volontà. O, forse, perché noi figli dello stesso Padre siamo stati vittime o di un integrismo brutale, ottuso, intollerante che voleva imporre la fede con le sole opere o di un progressismo che ha finito di ridurre la fede a nostro uso e consumo.
Mi metteva in guardia contro questi pericoli, che derivano non dal mondo, ma dall’interno della chiesa, un saggio prete che, commentando un versetto della prima lettera di Paolo ai Corinzi (“Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: ‘Io sono di Paolo’, ‘Io invece sono di Apollo’, ‘Io invece di Cefa’, ‘E io di Cristo’”) mi chiariva che la comunità dei cristiani di Corinto era dilaniata da conflitti, rivalità, impotenze: c’era chi si gloriava di essere un intellettuale, e di seguire Apollo, chi di essere un tradizionalista, e di seguire Pietro, chi di essere un progressista e di seguire il focoso Paolo.
Non vorrei che l’Arcivescovo, venuto a trovare i suoi fedeli a Varese, abbia trovato una comunità divisa come quella di Corinto. Auspicherei piuttosto che tutti i presenti abbiano testimoniato una salda unità, una visibile concordia perché la proposta cristiana non è opera di singoli, siano essi pure guide carismatiche o grandi pastori, ma del Signore che guida i nostri passi nelle strade del mondo e in questa epoca travagliata. Il che non significa omologazione. Quando ci si muove tutti verso la stessa corrente, c’è il rischio di avviarci tutti verso lo stesso declino. Se, al contrario, si scruta tutti assieme sotto l’alveo per scoprire se scorrono già nel profondo i flussi del nuovo, allora si farà opera di discernimento e si coglieranno i segni dei tempi. E questa è unità.
Dalla visita dell’arcivescovo si dovrà trarre spunto per fare una revisione dell’azione pastorale della chiesa varesina. I membri del consiglio decanale / pastorale, i rappresentanti delle associazioni e movimenti ecclesiali hanno presentato a Scola le considerazioni, le riflessioni e le domande raccolte durante gli incontri di preparazione all’incontro.
Sia permesso anche a me di associarmi a loro per segnalare a tutte le componenti ecclesiali due pericoli che ritengo dannosi per la nostra chiesa: il parlare troppo – e poco chiaro – oltre all’organizzare troppo.
Partecipando agli incontri ecclesiali – troppi, eccessivi, organizzati senza un’adeguata comunicazione, magari sovrapposti nella stessa ora e giorno – noto, da una parte, affermazioni che non ammettono repliche, compiacenza e servilismo, dire e non dire e, dall’altra, pavidità e acquiescenza, compiacenza e servilismo, se non ipocrisia. Tutto ciò intacca i rapporti fraterni. Durante questi incontri sovrabbondano le parole ed è quasi del tutto assente il tessuto della quotidianità fatto di lutti, di pesanti malattie croniche, di disabilità, di legami infranti, di separazioni, di abbandoni, di abusi, di violenze, di droghe, di disagi e patologie psichiche che esistono anche a Varese. Ma non sono queste le “periferie esistenziali” verso cui Papa Francesco sogna una chiesa “in uscita”? Non mi si fraintenda: lo so, ci sono persone, gruppi, associazioni che, nel silenzio, operano verso questi feriti nel cuore, ma purtroppo vengono lasciati soli e non si sentono attorniati dal calore di tutta la comunità.
Ci sono troppe iniziative. Si organizza troppo e c’è il rischio che l’apparato, le istituzioni, i problemi di funzionamento prevalgono su ciò che è essenziale: l’Eucarestia e la Parola di Dio. Nella liturgia c’è un ritorno a vecchi formalismi, al cedimento del ritualismo, alle devozioni private che si muovono nello spazio dell’emotività, dell’apparizione, del terapeutico. Anche i giovani sono attratti dallo spettacolare, mentre avrebbero bisogno di silenzio e di contemplazione. E ci sono troppe messe, quasi “private”, celebrate per uno sparuto numero di fedeli, mentre l’Eucarestia domenicale semplice, ma non sciatta, sobria, ma non trascurata, partecipata e silenziosa, è fonte di incontro, oltre con il Signore, con i fratelli.
Ritornando a ciò che più conta i battezzati colmeranno la sete di infinito che il mondo chiede e da loro “scaturirà il bisogno di testimoniare ad altri, con generosità e passione la bellezza del dono che il Signore ha fatto a noi” (Cardinale Carlo Maria Martini).
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