Dai centocinquant’anni dell’unità d’Italia al ventennale di “Mani pulite”. Si va da un anniversario all’altro rincorrendo la chimera di bilanci esaustivi e fondamento solido per il futuro, ma a me succede di ritrovarmi con poche certezze in ordine a un avvenire di crescita sociale e culturale.
L’Unità del Paese è festeggiata, ma ancora non si presenta psicologicamente realizzata quanto meno perché non tutti siamo certi di essere vera comunità nazionale. Accade in particolare a causa di progetti di secessionismi e anche di separatismi che, al Nord come al Sud, rappresentano espressione di forti aspirazioni.
“Mani pulite”: all’attivo la liquidazione della Prima Repubblica, un ridimensionamento del sistema dei partiti ed energiche lezioni a disinvolti politici e amministratori che illegalmente avevano dragato enormi risorse finanziarie per mettersele in tasca o nelle casse dei partiti. Tanto rumore non per nulla ma per poco perché il vizietto, già praticato ai tempi di Roma caput mundi, è rispuntato subito: nell’ ambito della collettività purtroppo non era mutata di molto la cultura della gestione della cosa pubblica, la corruzione non è mai andata in crisi e, dopo quella che poteva essere una svolta decisiva, oggi addirittura appare relativizzato anche il concetto di democrazia: ho infatti l’impressione che a livello istituzionale si è tracimato, è sufficiente guardare con attenzione a nuovi comportamenti del potere giudiziario e al declino della classe politica.
Insomma due anniversari in qualche misura velati di tristezza perché le vicende storiche ci dicono che l’ unità d’Italia ha comportato il sacrificio, nelle quattro guerre più importanti, di centinaia di migliaia di vite e che la lotta per la pietra d’angolo della democrazia, la legalità, ha visto cadere chi era in prima linea: magistrati, forze dell’ordine e politici galantuomini, giornalisti coerenti e coraggiosi, sindacalisti tutti d’un pezzo. Oggi abbiamo anche un altro grande motivo di tristezza e di preoccupazione: a qualsiasi livello e in qualsiasi situazione si vive un clima di forte contrapposizione se non di scontro e già riaffiorano segnali di quella violenza che degenerando anni or sono avrebbe prima portato al terrorismo, poi alla lunga stagione di sangue della mafia.
Prima di accennare a “Mani pulite” a Varese richiamo una mia considerazione di tempo fa sull’evento in generale: le iniziative giudiziarie per stanare in ambito politico i protagonisti della grande corruzione hanno fatto scoprire due Italie: quella milanese e lombarda e la restante, evidentemente fatta di angioletti.
La nostra magistratura, se non ricordo male, si mosse prima dell’avvio della valanga milanese, ma non si ebbe un immediato riscontro a livello di informazione, poi l’inchiesta viaggiò essa pure a ritmi sostenuti e nel segno di un estremo rigore; per intenderci meglio procedette senza i presunti cedimenti ideologici contestati anche in tempi recentissimi a chi inquisisce personaggi dei più importanti partiti.
I cronisti che vissero ora per ora quella stagione ne sanno di più e meglio, a me colpì l’impegno del pubblico ministero Agostino Abate che si sobbarcò un lavoro durissimo e fu oggetto di critiche, accolte dall’interessato nel totale silenzio.
Le critiche arrivavano anche da ambienti che di legge avrebbero dovuto saperne: infatti qualsiasi arresto, ieri come oggi, esige l’assenso di un altro magistrato. Tutte le richieste del pm Abate vennero accolte da Ottavio D’Agostino giudice per le indagini preliminari di eguale grande preparazione. Ci fu un caso in cui fece discutere la decisione degli inquirenti: i giornalisti e tutta la comunità non credettero alla responsabilità penale contestata dall’accusa a Minelli, presidente della Provincia tuttavia l’applicazione alla lettera della legge consentiva l’applicazione della misura cautelare. La legge stessa in seguito stabilì il proscioglimento pieno di Minelli.
Di ben diverso profilo l’arresto di un altro varesino politico perbene, Giuseppe Adamoli, emergente in Regione. Furono dei magistrati milanesi a incarcerarlo, per Adamoli tre giorni a san Vittore senza prove o indizi. Un infortunio giudiziario di rara gravità . La croce di questo errore la portò Antonio Di Pietro, in realtà egli era l’ultimo dei firmatari dell’arresto e non era del tutto convinto dell’iniziativa presa dai colleghi.
Vent’anni dopo posso segnalare un’ altra situazione emersa durante le indagini: avevamo a Varese un personaggio attivissimo in fatto di raccolta di tangenti, invece altri inquisiti, anche se ricoprivano cariche politiche o amministrative importanti, erano semplici ingranaggi del sistema e alcuni di loro addirittura dovettero essere aiutati finanziariamente da amici per superare la vicenda in cui erano rimasti coinvolti. Saranno i cronisti del tempo a raccontare nei dettagli e con precisione la nostra Tangentopoli. Oggi sono cambiate molte cose: quando in alcuni ambienti scattano le manette e hanno successo la Guardia di finanza e le inchieste della magistratura, ci sono sentiti momenti di speranza per una comunità tormentata dalla crisi e assetata di giustizia sociale.
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