Non nascondo di aver partecipato anch’io alla prima “Leopolda”, sette anni fa. Mi ero lasciato convincere a partecipare da un giovane amico che, alle mie riluttanze per la mia avanzata età, replicò che il mio idealismo politico poteva benissimo coniugarsi con il realismo del nuovo astro nascente del Partito Democratico. Ricordo che partecipai ad un tavolo di lavoro sulla scuola: non riuscivo a sintonizzarmi con i termini di quel lessico criptico infarcito di “progetti, amplificazioni, implementazioni, digitalizzazione, distanziamenti, individualizzazioni” e così via.
Fui molto più colpito, viceversa, dall’oratoria straordinaria, dal fascino, dalla comunicazione brillante di Matteo Renzi. Colpito, ma non convinto. Lo confessai al mio amico, durante il viaggio di ritorno.
Mi preoccupava la sua mancanza di un progetto globale di partito, l’inadeguata preoccupazione di una strategia per integrare ancor di più solidarismo cristiano con il radicalismo socialista, la visione della società che si voleva costruire e, più di tutto, un suo richiamo a don Milani che, detto in bocca del priore di Barbiana, significava tutto il contrario di quello che quel giovanotto urlava dal palchetto, mentre veniva osannato dai suoi fans. Le slide, poi, mi sembravano più adatte a un convegno di agenti di commercio che a un incontro politico e le idee del simpatico fiorentino un profluvio di ottimismo che l’Italia non poteva permettersi.
A me, abituato, in giovane età, a partecipare ai congressi nazionali della DC durante i quali faticavo a seguire il pensiero profondo di Aldo Moro o l’oratoria focosa di Fanfani, infastidivano i sarcasmi demolitori espressi con termini irriguardosi verso il passato, i vecchi, i dinosauri, la casta che occorreva rottamare.
Eletto segretario del PD, con una manovra di palazzo, Renzi cacciò da Palazzo Chigi il presidente del Consiglio allora in carica, suo compagno di partito. Ma, dopo la severa sconfitta subita al referendum costituzionale, Renzi uscì malconcio, vittima della promessa, pattuita con gli elettori, di abbandonare la politica in caso di sconfitta. Questo patto fu un grave errore, frutto di orgoglio, di eccessiva fiducia in se stesso nonché dell’ondata di malcontento popolare suscitato dalla sua politica.
Sarebbe ingeneroso dimenticare le buone cose fatte dal suo governo, l’impulso dato ad una stagnazione politica, le difficoltà in cui si trovò a governare. La sonora sconfitta fu frutto anche della logica della rottamazione: si era circondato di una consorteria toscana formata da giovani inesperti e aveva licenziato competenti e onesti servitori dello stato. Non prese le distanze, inoltre, da quanti, amici e sodali, sostenitori e talvolta finanziatori, sollecitavano da lui un uso distorto del potere.
In Europa si presentava spavaldo, dopo aver biasimato tutti: la Commissione, la Merkel, l’eurocrazia con le solite frasi ad effetto sì, ma che provocavano un manifesto disappunto tra gli interessati e facevano aumentarono tra i nostri “sovranisti” l’euroscetticismo. A infastidire l’Europa – e in special modo la Germania – era la continua richiesta di flessibilità nel bilancio, le cui risorse dovevano servire per rilanciare l’economia, ma che in parte servirono per finanziare la politica dei “bonus”, una mancia umiliante data a pioggia alle famiglie a basso reddito, agli insegnanti e ai diciottenni, regalia che doveva far aumentare i consumi che sono tuttora stagnanti.
Non ho mai capito la politica renziana del lavoro: inimicarsi i sindacati, mettere in atto misure di detassazione e incentivazioni fiscale a pioggia e contemporaneamente far approvare una misurata legge del mercato del lavoro.
Non di meno ho inteso quella tributaria: l’eliminazione indiscriminata dell’IMU sulla prima casa, la mancata revisione del catasto, la revisione sistematica del sistema tributario (se non con episodici provvedimenti!), presentarsi come il novello Guglielmo Tell contro Equitalia. La riforma della scuola, basata non su un progetto ontologicamente pedagogico di educazione nazionale delle nuove generazioni, ma su una racimolata raccolta di norme che permettesse l’entrata in ruolo di molti docenti, ha fatto il resto.
A me pare che Matteo Renzi, anziché regolare e temperare i conflitti, li abbia ampliati. La capacità di un leader si dimostra nel saper evitare l’accentuazione dei dissidi e di riconoscere onestamente e lealmente la parte di verità presente anche nelle posizioni degli avversari. Non ha saputo il segretario del partito di maggioranza relativa mantenere il conflitto sul piano del confronto e ha preferito trasformarlo in una sorte di scontri contro la sua persona.
L’aver ridotto, poi, la politica al “fare” (o, meglio, al promettere), a pura prassi, senza badare al grido di aiuto che sorge dalle nuove e vecchie povertà, dai giovani, dai disoccupati, da coloro che abitano le periferie esistenziali, ha dato l’impressione a molti che Renzi ponesse al centro della sua attenzione non la persona, ma la sua volontà di potenza e di successo.
Avrebbe potuto Matteo Renzi ritirarsi in buon ordine, come fecero i migliori statisti: ma preferì presentarsi dimissionario all’assemblea del PD, anticipando così la data del congresso. E risorse come “l’Araba fenice” (l’immagine non è mia, ma di “Le monde diplomatique”!). Sarà uno scisma? Sara una scissione? Sarà una cacciata, una stratificazione? Non lo so, ma sono consapevole che tra il criterio della fedeltà al partito e il venir meno delle promesse non mantenute c’è l’ampio spazio dell’obiezione di coscienza.
So, e lo constato quotidianamente, che gran parte degli elettori è tediata dagli opportunismi, dai tatticismi, dai discorsi autoreferenziali. Montesquieu diceva che quando i selvaggi delle Louisiana volevano un frutto, tagliavano alla base l’albero e raccoglievano il frutto: quando la prassi politica si sposa con la tracotanza, a cedere non sono solo le alte idealità, ma la logica!
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