Si poteva evitare l’uscita dei bersaniani che ha oggettivamente indebolito il Pd che è tutt’ora l’architrave del sistema politico e forma gran parte del governo Gentiloni? Domanda che molti giustamente si fanno e la cui risposta non si trova certamente nel mediocre dibattito sulla data e sulle modalità del congresso nel quale tanti dirigenti si sono malamente invischiati. Le risposte si trovano altrove, ma dove?
C’è chi attribuisce le ragioni della scissione all’incompatibilità tra la visione dell’ex Margherita e degli ex Ds. Un’analisi sommaria per almeno tre ragioni: 1) La gran parte di chi proviene dai Ds resta nel partito con nomi eccellenti. 2) Nel cosiddetto popolo del centrosinistra le due culture si sono evolute e integrate attraverso l’Ulivo. 3) Il Pd non sarà mai una nuova Dc perché è cambiato l’universo geopolitico e perché Renzi non appartiene affatto alla tipologia democristiana alla quale semmai appartengono Enrico Letta e Dario Franceschini.
Sbagliato anche credere che la decisione sia dovuta soltanto al rancore di Bersani che si è visto sottrarre la Ditta da Renzi l’usurpatore. In realtà il fuoco covava sotto la cenere da molto tempo. Era ed è alimentato da una doppia ricetta esistente nelle socialdemocrazie europee su come affrontare i temi della globalizzazione, dei ceti medi impoveriti, delle disuguaglianze. Bersani e i suoi più legati alla tradizione socialista, il Pd nel suo complesso più portato all’innovazione delle politiche sociali come il Jobs Act.
I prodromi della scissione si erano visti chiaramente già nella campagna referendaria. Se si organizza il No nelle piazze dopo aver votato la riforma in Parlamento è chiaro che il tutto è finalizzato ad altro piuttosto che al merito della legge in discussione. Renzi ha fatto i suoi errori e li ha riconosciuti lui stesso perfino con enfasi. Quello più grande lo ha compiuto sull’Italicum. Non tanto per il ballottaggio cassato dalla Consulta (che avrei visto molto volentieri) quanto per aver messo la fiducia su una legge che, essendo la quintessenza della rappresentanza politica, mal sopporta i vincoli di governo.
L’idea dell’abbandono si rafforza in quelle circostanze. La bocciatura della riforma avrebbe portato con sé il probabile ritorno al sistema proporzionale e premiato i partiti piccoli garantendo un pacchetto di parlamentari senza bisogno di misurarsi dentro un partito più grande con i rischi conseguenti.
Il tatticismo esasperato si è visto all’opera anche sulla richiesta della famosa conferenza programmatica. Di solito si tiene a metà mandato tra un congresso e l’altro per aggiornare il profilo e la linea politica. Volerla nell’immediata vigilia del congresso è paradossale. Si è detto: “Per capire se vi sono le ragioni dello stare insieme”. E si deve tenere l’ennesima assemblea per capirlo? Il congresso che cosa è se non un confronto fra varie piattaforme di programma su cui tutti gli iscritti sono chiamati ad esprimersi con un voto? Da qui si ripartirà, da un congresso giocato sulle tesi politiche e non solo sui nomi.
Secondo i soliti profeti di sventura il Pd sarebbe finito. Invece è finito solo un ciclo. Non è affatto vero che non ci sono più né destra né sinistra e che i partiti si differenziano solo per il grado di populismo. La destra è pericolosa ed incombe in Italia e nel mondo intero come dimostrano Donald Trump e Marine Le Pen. Non sarà una sinistra conservatrice e nostalgica a fermarla. Al Pd spetta il compito di dimostrare cosa sia una reale forza di centrosinistra in Europa. Se ci riuscirà sarà ancora il pilastro della governabilità italiana.
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