Parlare dei giganti della letteratura è rischioso; si può cadere nella trappola dei ricordi scolastici, banalizzare raffinate interpretazioni critiche o avventurarsi in nuove ( e non sempre utili) ricerche. Il rischio aumenta quando arrivano impietosamente gli anniversari. Il 28 giugno di cento cinquant’anni fa nasceva, figlio di un garibaldino, Luigi Pirandello. Già si stanno apparecchiando al convivio letterario le portate più solenni per ricordare colui che, informato dell’assegnazione del premio Nobel nel 1934, disse (pare): “Pagliacciate, pagliacciate”.
Bisognerebbe avere (a scuola e fuori) il coraggio di leggerlo – ora più che mai – senza condizionamenti, con nuova freschezza. E questo non per supponenza individualistica e autoreferenziale, ma per un autentico dialogo con l’autore e per una necessaria capacità di lasciarsi sorprendere. Ad esempio chi riconosce la voce di Pirandello in questo passaggio? …E lei li aveva lasciati fare, perché si stordissero come matti, quei poveri ragazzi in procinto di partire per la guerra. Avevano voluto finanche scoprirle il seno, là, alla vista di tutti, in trattoria, perché era famoso tra loro quel suo piccolo seno, quasi ancora virgineo, dai tuberi eretti; e gliel’avevano voluto battezzare, matti, con lo champagne… e lei li aveva lasciati fare e toccare, baciare, premere, strappare a quei giovani di vent’anni che forse sarebbero morti domani
È un vortice descrittivo che precipita in una conclusione struggente. Chiaramente pirandelliano è il finale di Ieri e oggi (questo è il titolo della novella). Jeri ho pianto per uno. Bisogna che oggi rida per quest’altro.
Non si può cogliere l’universo pirandelliano, puzzle di negatività e di ironia, di situazioni spiazzanti e di umoristica riflessione, di fluire e di fissità, di ricerca di verità e di maschere sociali di simulazione, in una novella, ma si può percepire la lezione di non dare mai nulla per scontato, a condizione di essere capaci di andare oltre alle apparenze: essere, cioè, umili scolari della vita, come disse lo stesso Pirandello quando ritirò il Premio Nobel.
Per questo è utile leggere una novella, semplice, quasi dimessa, dal titolo Un po’ di vino. Non è facile imprigionarne la storia (se di storia si può parlare) in un riassunto.
Il protagonista, senza nome, che dichiara all’inizio della storia di non bere vino accompagna in una bottiglieria un amico che al contrario di lui non può andare a letto senza il viatico, ogni sera, d’un buon bicchierotto. Nel locale dall’impalchettatura unta e impolverata e con tavolini gialli verniciati non c’era quasi nessuno. L’amico, dopo aver posato il bicchiere ancora a metà pieno di quel suo nero aleatico denso come un rosolio, socchiuse gli occhi e ingollò il sorso che aveva tratto con voluttà bambinescamente.
Il protagonista, o meglio l’io narrante, che ha la funzione di sguardo indagatore su quel microcosmo che è il cupo ambiente della bottiglieria, trasforma la stizza provata per essersi sentito mezzano di quella voluttà in una risata. In questa osservazione scaturita dal guardare il sorseggiare il bicchiere di aleatico ( sarà casuale la scelta del vino? ) si sintetizza quello che un poeta come Sanguineti definì l’ambivalenza insolubile, nel vino della vita che beviamo.
E se volessimo poi divagare moraleggiando grazie alla riflessione pirandelliana, noi, che spesso siamo mezzani di ben altre voluttà, saremmo capaci di una bella risata? Ovviamente lo sviluppo della novella non è frenato da quella risata ma diventa carrellata, curiosa ma intensamente e autenticamente pietosa su un vecchio, vestito di pulita semplicità, con le guance segnate da venuzze violette, molestato da una mosca. Il vecchio signore se ne sta seduto immobile e guarda un quartuccio di vinetto biondo, portatogli da un cameriere ( faccia da malato, gonfia, occhi bolsi). L’immobilità del vecchio incuriosisce il protagonista, o meglio colui che ci accompagna a guardare con occhi diversi quello che ci sta attorno e ci obbliga a fare e a farci domande. Si viene a scoprire che il vecchio è un Marchese ha avuto dal figlio il divieto di bere vino. Sa che la sua tristezza potrebbe essere superata bevendo un dito di vino.,ma l’allegria che ne potrebbe derivare non sarebbe vera. Ed ecco la domanda che Pirandello ci pone tramite il vecchio: Che cosa è vero, caro signore? Che cosa non dipende da ciò che ci mettiamo dentro per crearci ora questa e ora quella verità?
E come tutte le domande autentiche è una domanda drammaticamente aperta e drammaticamente attuale, capace quasi di vanificare una celebre affermazione di Umberto Eco, che potrebbe essere così sintetizzata: I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Il bicchiere di vino di Pirandello dà forza non al chiacchiericcio ma al riflessivo silenzio, di cui dovremmo essere attenti scolari.
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