Sapete quei messaggi di whatsapp che quotidianamente i nostri “contatti” ci inviano e che in genere hanno il solo scopo di intasare la memoria del cellulare? Beh, l’altro giorno ne ho ricevuto uno completamente diverso. Si intitolava Il grembiule della nonna e raccontava una nonna d’altri tempi attraverso le molteplici funzioni del suo grembiule: togliere le padelle dal fuoco, asciugare le lacrime dei bambini o pulire i loro visetti sporchi, portare la frutta e la verdura… Io, che ho avuto una sola nonna, e senza grembiule, in quelle immagini ho rivisto Teresina.
Teresina era nata e vissuta in Calabria, nel paese di mio padre, un paese appoggiato sulle colline, a metà strada tra il Tirreno e la Sila. D’estate, quando vi andavamo a trascorrere le vacanze, veniva ad aiutare mia madre nelle faccende domestiche. Arrivava silenziosa, un vecchio abito a pieghe lungo alle caviglie, il capo perennemente avvolto in un maccaturi – un fazzoletto di cotone – annodato sulla nuca, e l’immancabile sinale, il grembiule. Il volto era piccolo e rugoso, sopraffatto da un enorme gozzo; in bocca neppure un dente. Forse per questo Teresina sorrideva poco. Per lei sorrideva il suo grembiule, ripiegato alla cintura e rigonfio delle cose buone che portava in dono alla nostra famiglia.
Eppure era poverissima. Campava con la pensione del marito, disperso in Russia, e con qualche lavoretto saltuario. La sua casa era minuscola – cucina, sala da pranzo, camera da letto tutte in una stanza sola – ma linda e ordinata. Ci viveva con un figlio, e due galline. Poi il figlio emigrò in America.
All’avvicinarsi dell’estate, Teresina cominciava a mettere all’ingrasso un galletto. Sapeva che avremmo festeggiato, nello stesso giorno, il mio onomastico e il compleanno di mio cugino, così arrivava portando nel grembiule il galletto già spennato, il suo dono per la nostra festa. A volte, invece, senza che ci fosse una particolare ricorrenza, faceva uscire dal sinale nocciole, peperoni, pomodori, fagiolini. Non so dove li prendesse, forse glieli regalavano in cambio di qualche lavoro in campagna e lei li condivideva con noi, in silenzio. Se mio padre provava a protestare, bruscamente rispondeva: Statti citu, mo’ ‘ncign’ abbarrucarme! (stai zitto, adesso cominci a tormentarmi!). Allora papà taceva ed accettava, riconoscendo l’affetto e la dignità che si nascondevano dietro quella ruvidezza.
Una volta all’anno Teresina si concedeva un piccolo lusso: con il vestito buono e il sinale della domenica andava nel paese vicino per la festa della Madonna e lì, alle bancarelle allestite attorno alla chiesa, si comprava un maccaturi nuovo. E la sera, quando tornava, passava da casa nostra e tirava fuori dal grembiule grossi grappoli di uva zibibbo. Quello era l’unico giorno in cui indossava le scarpe. Per tutto il resto dell’anno andava scalza, su strade di terra battuta e di sassi, portando sul capo pesi enormi, con quell’andatura regale che hanno coloro che devono camminare lentamente e diritti, lei che di regale, nel fisico, non aveva nulla.
Il suo passatempo, quando aveva tempo da far passare, era sedersi sul gradino di casa a chiacchierare con i vicini. Ad aspettare che il marito tornasse dalla Russia, che il figlio le scrivesse dall’America. La sosteneva una religiosità semplice, che si manifestava con la devozione completa di chi non pone domande e non pretende risposte. I primi tempi, dall’America arrivarono alcune lettere; gliele leggeva mio padre, a cui lei dettava le risposte. Poi arrivarono con minore frequenza. Infine non arrivarono più.
E poi anche noi non andammo più al paese per le vacanze. Quando pensavo a Teresina lo facevo con la convinzione che ci sarebbe sempre stata, che sarebbe bastato tornare e l’avrei ritrovata lì, come la casa, la chiesa, il mare che scorgevo tra le colline. Invece un giorno si sedette sul gradino di casa, chinò il capo e se ne andò, quieta, con le mani abbandonate sul grembiule, dove aveva tenuto nascosto il suo cuore grande.
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