Ricordo i primi lavori di questa pittrice. Essa si affacciava giovinetta all’Arte, e già sapeva dire, in un modo tutto suo, ed estremamente gentile, il suo pensiero in toni delicati, quasi timorosi.
Dopo parecchi anni che possiamo definire di formazione, inizia la sua pittura più vera con i quadri che le procurano non pochi successi. Difficile è parlare singolarmente delle sue opere astraendole dal clima entro le quali vivono. Accennerò solo alla qualità del colore, un colore raffinato, sottile, direi quasi il colore del pensiero.
Così si esprimeva Gino Moro, maestro di Enrica Turri Bonacina, una tra le allieve predilette parlando dell’ancor giovane, eppure già apprezzata artista. Era l’aprile del 1959 e lei esponeva alla galleria Prevosti. Nella presentazione su libretto per la mostra, una delle tante cui parteciperà in Italia e all’estero, nella sua lunga vita, Moro elogiava anche la personale scelta della pittrice nell’evitare i “facili astrattismi” per percorrere una strada solo sua, mantenendosi “squisitamente femminile, non rinnegando mai le sue doti di sensibilità e lirismo”.
Il giudizio tracciato da Gino Moro, ottimo pittore e maestro di artisti varesini, sarebbe già di per sé motivo sufficiente per ricordare, a distanza di dodici anni dalla morte- avvenuta il 13 giugno 2005, e a cento dalla nascita, a Somma Lombardo, era il 10 gennaio 1917- la bella figura di questa artista, e soprattutto di donna, che custodiva-e ancora custodisce in sé- tutte le qualità per essere onorata e additata come figura esemplare.
Esemplare fu prima di tutto il suo percorso: vissuto seriamente, dapprima al liceo artistico delle Marcelline di via Tommaseo a Milano, poi nella frequentazione dell’ Accademia di Brera, dove sostenne gli esami da privatista, per scelta della famiglia, avendo come maestro Moro, e godendo dell’amicizia amichevole di colleghi artisti attenti e vivaci, mai estranea dunque alla realtà e alle novità. Eppure fu sempre fedele a sé stessa, a quel pensiero puro e raffinato cui allude Moro, a quella vena chiarista intessuta di poesia e sentimento che affiora in ogni soggetto rappresentato: natura morta o paesaggio, ritratto di bambino o mazzo floreale, illuminato dalla più pura luce e profumato, di quella agreste fragranza che lei -come pochi altri- sapeva effondere nelle sue opere.
La varietà delle diverse tecniche in cui era ugualmente versata, l’olio, usato con leggerezza e con un imprinting che sposa un’ingenuità fanciullesca di tocco all’infinitezza del pensiero, ma anche l’acquerello, interpretato con pennellate magistrali, dove la sua abilità coloristica trova massima esaltazione nella crescente gradualità, quasi musicale, del tocco: che scorre e risale, dalle giovanili trasparenze evanescenti dei cieli liguri, alle “sonorità” color zaffiro dei paesi esotici visitati nella piena maturità di donna e artista.
Una visione d’insieme dell’opera -che s’allarga a un’infinita ricchezza di temi, di scorci e soggetti- ci spalanca le porte di un mondo che mai Enrica ha smesso di raccontare a se stessa e agli altri. Tutta la sua vita è entrata, goccia a goccia, nei suoi quadri, l’artista non ha tralasciato, né dimenticato, nulla: la conchiglia che forse rimanda la musica del mare, e il vento degli ulivi che si piegano tra cielo e terra nella macchia marittima, e la liquidità cristallina dell’acqua nel vaso di anemoni e l’odore del fieno, nei campi di San Fermo.
Qui, dopo l’adolescenza trascorsa a Casbeno con la famiglia, e la parentesi milanese di giovane sposa, saranno per sempre la sua residenza e lo studio d’artista, nonché il centro dell’attività intrapresa col marito Luigi, medico. Un’attività che richiederà sempre dedizione, attaccamento a creature malate e indifese che avevano bisogno di cure e assistenza.
C’erano solo campi a perdita d’occhio quando il medico aveva eretto la solida e spaziosa casa che doveva ospitare la grande famiglia dell’Anfass. Lei aveva condiviso tutto di quella nobile scelta di Luigi, professionale e umana, ma in quel mondo riusciva a trovare spazio anche per i figli -dopo Piermaria nacque Patrizia-, per il suo lavoro, e per quel mestiere d’artista che mai lascerà.
Forza e sostegno non le verranno mai, non l’erano mai mancati del resto, neppure nei momenti bui, appena dopo il matrimonio.
Luigi era rimasto lontano, negli anni della guerra, e lei a crescere, a sua volta lontana e sola, il primogenito.
Un diario, riproposto dai figli, ha restituito la forza di Enrica: scriveva ogni giorno una lettera- per ben tre anni, a partire dal ‘43- a un uomo che non poteva rispondere, perché prigioniero in Algeria dell’esercito inglese, ma che lei sentiva vicino e presente, e-ne era sicura- sarebbe ritornato. Come infatti fu. Questa sera sono andata a san Fermo a prendere delle robe che avevo lasciato. Quanta nostalgia mi è venuta. Se tu avessi visto che bellezza. Adesso è il momento bello per fare campagna lassù. Una pace, una serenità leonardesca, che colori, che paesaggio! Sembrava di vivere in un mondo irreale. Peccato aver poco tempo a disposizione e dover godere tutto in fretta. Ma forse è meglio così. Perché comincerei a sentire più acuta la tua mancanza. Guai poi se avessi avuto tempo di star lì a pensarci. Vedi per me va bene fin quando ho tutto il tempo occupato e così non penso a tutti i miei guai.
E poi la quotidianità, di nuovo felice di una vita a due fondata sull’amore, allietata dai figli, confortata dalla serenità di una famiglia privilegiata, ma che ogni giorno restituiva qualcosa di quel tanto che aveva ricevuto dall’alto.
Chi scrive ebbe la fortuna di conoscerla e di incontrarla più volte, la prima fu in occasione di una bella antologica, proposta negli anni Novanta da Gabriella Badi, moglie dell’artista Antime Parietti, a palazzo Rossi di Luino.
La dote che più piace sottolineare, della persona e dell’artista, è la serenità di Enrica. La si coglieva nei suoi occhi azzurri e limpidi, nel sorriso buono, nella voce gentile, pacata e rassicurante, nella figura bella e linda, i capelli bianchi morbidamente raccolti all’indietro a incorniciare quel viso che esprimeva tutta la sua dolcezza e intelligenza di donna. Proprio di quella serenità e intelligenza parla ogni suo quadro. Cosa sono quei dettagli minimi quotidiani -il vaso, la conchiglia, la finestra aperta sui campi, il singolo fiore- se non visioni di luce, finestre aperte su squarci infiniti di serenità? Si respira nei suoi quadri odore di quiete e la coscienza di esser a posto con se stessi. E si comprende che in quella pittura non c’è ricerca di impercorribili precipizi, ma la voglia di assecondare sentieri inondati, nella più chiara luce, da rassicuranti promesse. C’è in essi odore di quiete, odore di casa, di domesticità, di una famiglia ben costruita e amata, e di un amore che da quel bozzolo di felicità domestica s’allarga a tutto e a tutti.
Forse manca certa bizzarria dell’arte che insegue le mode, e che lei ha giustamente sempre rifiutato, come la sottolineatura insistita, ad effetto, nella rincorsa alla voglia di chiaro e di scuro, di luce e ombra.
Le ombre non mancano in nessuna vita, neppure nella sua di ragazza pur nata bene, in una famiglia della miglior borghesia, da un padre imprenditore tessile, illuminato e a sua volta pittore, che le permise un’adolescenza felice, arricchita dallo sport, in cui eccelleva, e dall’arte, che già cominciava ad amare.
Ma la lunga guerra e la prigionia di Luigi saranno un interminabile e cruciale momento della sua vita di giovane sposa, uno spartiacque che non si può ignorare: ci sono momenti di profondo scoramento anche in quelle sue lettere, ispirate e sostenute da un amore incrollabile. Eppure la sua arte e la sua vita sembrano voler dire che è compito di donna, anche quando la donna ha l’alta sensibilità dell’artista, soggiogare l’ombra e annegarla nella luce dei propri occhi e dell’anima.
Chi osserva i suoi quadri sa che il colore del pensiero di Enrica volava alto nei suoi cieli acquerellati. Ed è sempre riuscito a volare alto, ancor di più negli anni della prova, sprigionando il sentore semplice, ma indimenticabile, dei suoi fiori di campo, che ha accompagnato la sua arte e la sua vita.
San Fermo, anche per grande merito di Enrica e dei figli, è ancora oggi terra di incontri d’arte, che si rincorrono soprattutto l’estate, tra cortile e cortile, tra studio e studio. E l’anno in corso sarà ulteriore occasione per ricordare la sua più amata artista: per rivedere l’ultimo studio, più volte da lei ritratto, con la famosa sedia in primo piano, gli archi, i quadri dei colleghi- come il Cristo di Montanari- i libri e i tanti colori che rallegravano la quotidianità serena di Enrica.
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