Da quando è stata esposta al Meeting di Rimini, lo scorso agosto sono cambiate una miriade di cose: c’è un nuovo e problematico presidente degli Stati Uniti, è esplosa la crisi libica, i viaggi della speranza di chi cerca di raggiungere le nostre coste, nonostante l’inverno, non sono diminuti, c’è il governo Gentiloni. Eppure la mostra “Rifugiati” che tocca Varese dal 18 al 26 febbraio al salone ‘VareseVive’, una delle più visitate della kermesse estiva, è un fondamentale strumento per capire il dramma più grande dopo la seconda guerra mondiale (parole di papa Francesco) e con il quale noi e le future generazioni dovremo convivere per decine di anni a venire. Un cambiamento epocale (ancora Bergoglio) che costituisce una sfida ma anche e un’opportunità: uomini, donne, anziani e bambini, mossi dalle più differenti ragioni, in cammino, lasciando le proprie terre di origine – spesso devastate da guerre, persecuzioni di natura religiosa, povertà e miseria – per affrontare l’incognita di un viaggio verso il futuro. Hanno volti, storie, non sono numeri, ma persone come noi, con la stessa dignità e lo stesso diritto alla felicità.
“Rifugiati” sfata alcuni miti. Si parla periodicamente del rischio di una colonizzazione islamica. Ma se si guardano le statistiche si scopre che la maggior parte degli stranieri sbarcati in Italia sono cristiani (2 milioni e 800mila). I musulmani sono la metà (1 milione e 400mila) divisi al loro interno tra sunniti, sciiti, ismailiti, sufi e provenienti da almeno dieci paesi differenti di Medio Oriente, Africa, Asia. Un blocco tutt’altro che monolitico.
Lo stesso dicasi per una presunta invasione dall’Africa. Le comunità più numerose sul nostro territorio arrivano da Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine che insieme raggruppano il 55 per cento della popolazione straniera. In Italia sono censite in tutto 198 nazionalità: siamo un Paese caratterizzato da un alto tasso di multietnicità a differenza di altri stati europei in cui prevalgono pochi gruppi ben definiti a causa delle precedenti dominazioni coloniali.
C’è poi chi accusa gli stranieri di ‘rubare’ occupazione agli italiani e chi sostiene che facciano i lavori che i nostri connazionali non vogliono più fare. Ma anche qui le cifre e le statistiche (su base Istat) presentate da filmati e pannelli parlano un linguaggio ben diverso.
Ma la parte più interessante della Mostra è quella che presenta la straordinaria vitalità sociale che negli anni è stata capace di generare un incredibile tessuto di opere di accoglienza ed educazione, dove la sfida È diventata incontro e la iniziale diffidenza cammino comune. Sono una ventina di storie che spaziano dalla cooperativa sociale Ballafon a Bisuschio, alla scuola per stranieri Penny Wirton di Eraldo Affinati a Roma, dalla storia delle prostitute nigeriane salvate da don Benzi, al clandestino albanese accolto da un prete a Firenze e diventato a sua volta sacerdote, da Nabil al Lao esule siriano rinato in Italia, agli egiziani che fanno rivivere i borghi abbandonati dell’entroterra genovese. È una Italia bella e diversa da quella che i media raccontano. Pronta a sporcarsi le mani e ad assumere responsabilità senza alcun tornaconto economico. Desiderosa di conoscere, ascoltare e condividere le storie di culture e mondi un tempo lontani e ora giunti a bussare alle porte di casa nostra su fatiscenti barconi.
Spesso viene ripetuto che non ci sono ricette di fronte a un problema così gigantesco. Ma già uno sguardo curioso e non spaventato di quanto accade e il racconto di semplici tentativi che provano a rispondere ai cambiamenti fanno la differenza.
Una bella occasione, questa mostra.
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