È di stringente attualità riconsiderare il problema della presenza femminile nella Chiesa e nella società, oltre gli inveterati condizionamenti della tradizione, facendo invece appello alla rivoluzione autentica introdotta nella storia da Gesù e dai Vangeli nel riscattare la donna da un’umiliante condizione di servitù, di soggezione.
In Israele, come nella cultura antica, il posto che le era riservato e riconosciuto era quello della famiglia, della sponsalità e della maternità. La più alta vocazione era d’essere padrona della casa, educatrice di prole numerosa, ma con una presenza nascosta, un ruolo e una dignità per così dire all’ombra dell’uomo, marginale e subalterno.
Questa, non stupisca, era la preghiera quotidiana dell’ebreo osservante: “Benedetto il Signore, che non mi ha creato né pagano, né donna, né schiavo”. La straordinaria apertura di Gesù nei confronti delle donne, testimoniata dai Vangeli, ha conosciuto ben presto un’involuzione nell’ambito della Chiesa nascente. Le discepole, apostole della sua resurrezione, scompaiono via via nel silenzio e nell’oblio. Le prime credenti nella sua glorificazione al momento della discesa dello Spirito nell’ora della Pentecoste si riducono ad alcune donne e Maria (Atti degli Apostoli 1,14); mentre si registrano con cura i nomi degli undici apostoli le donne rientrano nella sfera dell’anonimato.
Nel primo momento d’inculturazione del Vangelo si possono citare parecchi passi: Gal.3,28: “Tutti infatti siete figli di dio in Cristo Gesù mediante la fede… non esiste più giudeo né greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o donna: tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù”; 1 Cor.7, 2-5: mariti e mogli sono posti in un rapporto di perfetta reciprocità; 1 Cor. 11, 4-5: la soggettività è la stessa nell’assemblea liturgica, come l’abilitazione a profetizzare. Ma accanto di Paolo si possono citare: Ef. 5, 24. Ora come la Chiesa è soggetta al Cristo, così anche le donne ai loro mariti in tutto”; Col. 3,18: “Donne, siate sottomesse ai vostri mariti, come conviene nel Signore”. Il rapporto non è più paritario. E nella lettera ai Colossesi 3,11, deuteropaolina, scompare di Gal. 3,28: “non c’è maschio né femmina”. E in ultima istanza ci si deve riferire a I Tim. 2, 11-15: “La donna impari in silenzio, con perfetta sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare, né di dominare sull’uomo, ma che stia in silenzio… non fu Adamo ad essere sedotto; la donna, invece, fu sedotta e cadde nel peccato. Tuttavia essa si salverà mediante la generazione dei figli “ e a I Cor.14, 34-35: Come in tutte le Chiese dei Santi, le donne nelle assemblee tacciano, …ma stiano sottomesse, come dice anche la legge. Interroghino a casa i loro mariti. È disdicevole per una donna parlare in assemblea”.
La legge vigente nell’ordine sinagogale riappare imperante nella comunità dei discepoli di Gesù. Pietro a Cesarea ha confessato la fede in Gesù quale il Cristo, il Messia, il Santo di Dio che ha parole di vita eterna; ma anche Marta, una donna, gli si rivolge in questi termini: ”Io ho creduto che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo “ (Gv. 11,27). Maria di Magdala e le altre donne al sepolcro per prime credono alla resurrezione e la raccontano agli Undici increduli: “queste parole parvero ad essi come un’allucinazione” (Luca 24,11). Quello che conta parimenti, per l’uomo e per la donna, stando al messaggio evangelico è il discepolato alla scuola di Gesù, è il rapporto con il Signore, intessuto sull’ascolto e la pratica della sua parola. Questo al di là della maternità biologica e della funzione domestica tradizionale, predicato come valori nell’antica Scrittura.
La presenza delle donne nel Vangelo di Giovanni rispetto ai Vangeli sinottici è tratteggiata in modo preciso, con una personalità ben definita, sono soggetti di dialogo e di confronto, soprattutto capaci di testimoniare la vera identità del Cristo.
Nell’episodio della samaritana, il pozzo di Giacobbe, Gesù supera il muro di separazione e di inimicizia eretto tra samaritani e giudei, oltre che quello culturale e religioso di ingiusta disparità, che gli impedirebbe di conversare con una donna, peccatrice e insieme assetata d’amore terreno.
Alla donna che si svela nella sua miseria Gesù si svela nella sua verità di Messia inviato secondo la promessa, le fa dono di una sorgente interiore, quella dello Spirito. La donna corre in città e con sobria testimonianza induce la sua gente alla fede.
Gli scribi e i farisei conducono al Redentore una donna sorpresa in flagrante adulterio e lo mettono alla prova sulla necessità secondo la legge di doverla lapidare. Lapidaria è la risposta agli “irreprensibili” custodi della Torah: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Gesù non contraddice la legge e però conferma la sua prassi di misericordia. L’agire di Dio non è mai condanna, ma sempre perdono, restituisce alla donna la sua dignità, mentre l’impegna a non più peccare: ” Va’, e d’ora in poi non peccare più “(Gv. 8, 1-11).
Con Maria, sorella di Marta e di Lazzaro, nei giorni precedenti la Pasqua, in occasione di un banchetto organizzato nella casa di Betania, compie per Gesù un atto d’amore senza misura, ungendogli i piedi con trecento grammi d’unguento di nardo molto prezioso e li asciuga con i suoi capelli (e la casa fu ripiena della fragranza di quel profumo, Gv. 12,3). È un gesto d’amore profetico, visionario, di glorificazione, nella cui sensibilità è la consapevolezza della morte vicina del Salvatore. Nonostante lo scandalo miserabile e ipocrita di Giuda, è un amore cantato senza limiti, oltre le convenzioni, le prudenze. E Maria di Magdala apparirà sotto la croce col discepolo amato da Gesù, mentre tutti gli altri apostoli sono fuggiti in preda al terrore, abbandonandolo.
Per tutto questo non è difficile trarre la conclusione che l’aver confinato le donne alla pura attività di diaconia è da addebitare alla responsabilità e a una tendenza della Chiesa lungo la storia, ma non alle intenzioni di Gesù.
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