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Ha ancora un senso nell’era del selfie, delle foto-fai-da-te con i cellulari, dell’inflazione dell’immagine laddove tutti quanti si improvvisano fotografi, recarsi a vedere una mostra fotografica?
Più che mai, se trattasi di un caposcuola come Cartier-Bresson (nato a Chantaloup en Brie il 22 agosto 1908, morto a l’Isle-sur-la-Sorgue, 3 agosto 2004), uno dei prestigiosi fondatori della leggendaria Magnum, forse la più importante agenzia di fotogiornalismo, nata proprio con lo scopo di proteggere il diritto d’autore in ambito fotografico e la trasparenza d’informazione.
Centoquaranta scatti di Henri Cartier Bresson, in mostra alla Villa Reale a Monza dal 20 ottobre 2016 fino al 26 febbraio 2017, dedicati al grande maestro, per immergerci nel suo mondo, per scoprire il carico di ricchezza di ogni sua immagine così vivida, così poetica.
Non ricordo più quale fosse la tribù di aborigeni che si rifiuta di farsi fotografare, perché pensa che la foto sia un modo per rubare loro l’anima. Eppure quante foto vediamo sulle lapidi che ritraggono i defunti mentre vivono i momenti sereni e lieti della vita. In questo caso, la fotografia dei volti sembra restituire anima agli estinti. La foto è in fondo quel click che ferma l’attimo fuggente, in grado di sorprenderci: ci si riconosce e nel contempo si è stupiti nel vederci immortalati in un atteggiamento bizzarro o inconsueto della vita. Ci sono immagini che possiamo ritenere salvifiche e ci sono altre immagini che sono espressione di volgarità, grossolanità, crudeltà, sadismo, perversione. Di fronte al persistente bombardamento fotografico moderno è importante saper selezionare. Occorre dire che se sfogliamo rotocalchi, tabloid o riviste, difficilmente possiamo sottrarci agli ambigui e feticistici messaggi della pubblicità, incentrati sull’edonismo di massa, cattive sirene che approfittano della nostra distrazione per attaccarci.
C’è stato poi un periodo della più recente storia di questi anni, nel quale nasce quasi un’ideologia catastrofista precostituita della fotografia: documentare, a scopo di denuncia, le brutture e le storture prodotte dall’uomo nel mondo contemporaneo. Ne è scaturita una vera e propria “etica fotografica” negativa, un modello di comportamento precostituito che induceva a ricercare a ogni costo immagini di disastri e degrado: inquinamento, guerra, mostruosità urbanistiche, umanità affamata e derelitta, imbruttita dalle privazioni, dall’alienazione o dalla depravazione… E via insistendo lungo questo fosco percorso.
Quando si pensa però a un vero artista della fotografia capace di fare del poetico quotidiano la sua grande cifra, si pensa a Henri Cartier-Bresson. Forte è la componente pittorica (sapeva dipingere) delle sue immagini così riconoscibili fra tante. Cartier-Bresson co-fondatore della prestigiosa agenzia Magnum con David Seymour e Robert Capa, diventa uno dei grandi padri fondatori più apprezzati del fotogiornalismo. Ma i suoi ritratti rimarranno sempre negli annali della grande fotografia d’autore, grazie alla sua prodigiosa Leica 25. Nessuno come lui ci ha regalato ritratti indimenticabili in uno sgranato bianco e nero con tutta la sua incomparabile gamma e sfumature di grigi di Albert Camus, Balthus, Truman Capote, Faulkner, Coco Chanel, Gandhi, Sartre, Alberto Giacometti e molti altri ancora.
Voglio soffermarmi su quest’ultimo personaggio per ricordare quella scanzonata immagine fotografica, nei sobborghi di Parigi in una stravagante flanerie mentre si ripara dalla pioggia tirandosi l’impermeabile in testa. O quella in cui diventa un’esile e minuta figurina tra le sue stilizzate silhouette in un gioco simbiotico fra l’artista e la sua opera. E ancora Giacometti, con la sua faccia scolpita e segnata che è già scultura tra le sue sculture.
Per Cartier-Bresson la tecnica rappresenta solo un mezzo che non deve prevaricare e sconvolgere l’esperienza iniziale, reale momento in cui si decide il significato e la qualità di un’opera.
Le foto di Cartier-Bresson sono protette dai diritti d’autore nella fondazione che va a suo nome. Leggere l’affascinante biografia dei suoi viaggi di lavoro, significa rendersi conto che fotografare e viaggiare era per lui un tutt’uno inscindibile. Ma ci ha altresì dimostrato che è forse più facile fare i bravi fotoreporter in lontane terre esotiche che eseguire uno scatto magico e indimenticabile dietro casa propria. E vi assicuro che le foto scattate in patria (la Francia), magari nei paraggi di casa sua, non hanno nulla da invidiare a quelle dei paesi lontani. Le contrade di Parigi non sono mai state così parigine come nelle istantanee di Cartier-Bresson.
Ecco uno dei suoi celebri aforismi che è anche una lezione per chi fotografa: “Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento”.
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