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Società

HORROR QUOTIDIANO

GIOIA GENTILE - 03/02/2017

ilnomedella-rosaA volte ho l’impressione di vivere in un film. Dell’orrore. Ragazzini che uccidono i genitori a colpi d’ascia; bullismo sempre più diffuso anche tra gli scolari delle elementari; madri che avvelenano i figli con i sedativi; nonni, parenti e amici di famiglia che molestano i bambini, se addirittura non li fanno volare dal balcone; mariti e fidanzati che uccidono le proprie compagne o le sfigurano con l’acido. Che cosa sta accadendo agli esseri umani? Quando è successo che abbiamo perso la capacità di distinguere il bene dal male, quando è avvenuta la frattura? Se riuscissimo a capirlo, ad individuare il momento in cui certi fondamentali valori del nostro vivere si sono incrinati, forse potremmo trovarne le cause e correre ai ripari.

Alcuni sostengono che queste atrocità venivano commesse anche in passato, ma sembravano più rare perché non avevano la visibilità e la risonanza che oggi danno loro i mass-media. Può darsi, ma a me pare che questi episodi siano sempre più frequenti e che la responsabilità sia anche dei mass-media che, amplificando le notizie, contribuiscono a sollecitare l’imitazione.

Sinceramente non riesco neppure più ad ascoltare sociologi e psicologi che si affannano a dare spiegazioni: mi sembrano patetici tentativi di razionalizzare una realtà che sfugge ad ogni comprensione, spesso vuoti esercizi retorici.

C’è chi ha osservato che, secondo Freud, ciascuno di noi ha desiderato uccidere qualcuno almeno una volta. Credo sia vero, ma poi quasi nessuno l’ha fatto. Umberto Eco, nelle Postille a Il nome della rosa dichiara: “Avevo voglia di avvelenare un monaco”. Però ha scritto un romanzo. Anch’io, nel mio piccolo, tendo a scaricare l’aggressività leggendo o guardando gialli. Ma, appunto, nell’uno e nell’altro caso si tratta di sublimazione, di un’alternativa catartica alle pulsioni negative che si agitano nell’ombra del nostro animo. Che cosa scatta, che cosa si rompe o che cosa manca, invece, nelle persone che a quelle pulsioni non esitano a dare libero sfogo?

Devo ammettere che anch’io ho cercato di analizzare il problema nel tentativo di trovare una risposta, almeno parziale. E sono arrivata alla conclusione che la mia generazione, quella dei nati nel dopoguerra, non abbia saputo educare i propri figli e che il vuoto si stia trasmettendo alle generazioni successive: pochi divieti, troppe concessioni sono stati espressione di scarso interessamento, in definitiva di scarso amore. I bambini, i ragazzi lo avvertono se un adulto è interessato a loro, percepiscono quando le regole sono un modo con cui comunicare l’affetto e non fini a se stesse.

Ho avuto centinaia di allievi e tutti hanno sempre dimostrato di apprezzare le regole, anzi, addirittura le richiedevano. Ma pretendevano che nascessero dall’autorevolezza. Dall’autorevolezza, non dall’autoritarismo. Dovevano capire che l’insegnante si interessava a loro, che lavorava per loro. In poche parole, dovevano sentirsi rispettati e amati. Ma se l’autorevolezza viene meno, quali punti di riferimento possono avere i ragazzi? A quali modelli possono guardare, con quali criteri possono giudicare se accettarli o rifiutarli? Come possono costruirsi l’autostima necessaria ad affrontare gli ostacoli della vita?

Un’analisi, la mia, approssimativa ed empirica, me ne rendo conto. E in questo periodo, in cui ricorrono le giornate della Memoria e del Ricordo, allargo lo sguardo e penso ai campi di sterminio nazisti, ai gulag sovietici, alle foibe, alle decapitazioni, alle torture, a tutto ciò che di male l’uomo è riuscito e riesce a fare sui propri simili e giungo alla conclusione che forse non c’è educazione che tenga e che l’unica spiegazione è che la malvagità, con buona pace di Rousseau, sia caratteristica fondamentale e ineliminabile della natura umana.

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