Ad aspettarlo, fuori della sede della Mondadori, c’era la moglie. Il marito scese di corsa gli ultimi scalini, aprì d’un botto la porta a vetri, si avviò rapido verso l’auto. Entratovi, esclamò: “Mimma, ghe sémm”. È andata. Ce l’abbiamo fatta. Mimma era la dolce signora Buzzetti, maritata Chiara. Lui lo scrittore Piero, che sarebbe stato prescelto dal successo. E il successo, al quarantanovenne Piero Chiara, l’avrebbe decretato il libro “Il piatto piange” in uscita qualche giorno dopo, evento di cui l’autore aveva appena ricevuto la conferma. Era la fine di febbraio del ’62, la collana “Il tornasole” lo editò ai primi di marzo. Tiratura iniziale tremila copie, subito moltiplicatesi fino a diventare, nel corso degli anni, centinaia di migliaia.
Confessò Piero: “Non cominciai tardi a scrivere, cominciai tardi ad avere consenso. A scrivere avevo iniziato tra i dodici e i tredici anni, nonostante avessi già alle spalle una discreta carriera di ripetente”. Scrivere come richiamo irresistibile dell’intimo, narrare per comunicare, raccontare per rispondere a una vocazione. Per Chiara, il “romanziere venuto dalla vita”, la letteratura fu questo e null’altro. Amore verso la propria terra, dedizione alle piccole cose, ricerca e cura del dettaglio emozionale. Insisteva nella definizione dei caratteri fisici allo scopo di rivelare quelli dell’anima. Perché tutti i suoi personaggi avevano una decifrabile anima, come subito denunziarono il Camola e il Tolini, il Rimediotti, il Guerlasca e il resto della folta schiera del “Piatto piange”.
Diventato famoso, Chiara firmò un elzeviro sul Corriere della Sera celebrativo di Alfredo Binda, che aveva compiuto da poco gli ottant’anni. Riferì di quando, cancelliere a Cividale del Friuli, andò a Udine per assistere all’arrivo d’una tappa del Giro d’Italia. E qui riuscì a intrufolarsi nell’albergo Croce di Malta che ospitava la Legnano, la squadra di Binda, maglia rosa della corsa. Spacciandosi per un parente dell’Alfredo, Chiara ottenne di potersi affacciare alla camera dove il campione riposava. Binda, avvistatolo, domandò chi fosse, e saputane la provenienza luinese, disse di lasciarlo pure dove stava. Chiara poté osservare per una buona mezz’ora il suo idolo, nei cui occhi ebbe la sensazione di scorgere la terra che aveva dato ad entrambi i natali. “Nessuno come lui viveva quel paesaggio, entratogli nella mente come il modello ideale di tutti i percorsi affrontati in ogni parte del mondo”. Assegnando a Binda la funzione di simbolo dei luoghi amati, Chiara provò consolazione: “Ero lontano da casa, ma con dentro Valcuvia e Valtravaglia, Varesotto e Lago Maggiore, le Prealpi e i piccoli fiumi e torrenti che scorrono segretamente al piede dei monti”.
Questo era il bene, così intenso da essere talvolta struggente, che voleva alla sua terra. Non è un bene di cui s’è perduta la contezza. Forse ce la si scorda più di frequente che in passato, ma poi viene per tutti il giorno del richiamo agli affetti più cari. E alla culla, e al luogo di “residenza” della culla. Possiamo far finta d’ignorare le origini, ma possiamo farlo con chiunque tranne che con noi stessi. E accorgerci prima che sia troppo tardi che non c’è globalizzazione capace di snaturarci al punto di disconoscere da dove veniamo. Talvolta ci si chiede qual è il modo per rispondere alla solitudine che ci prende anche (soprattutto) se siamo tra la folla: eccolo il modo, la memoria del passato.
In allegato: intervista alla segretaria di Piero Chiara “IL NARRATORE TRISTE”
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