Sabato mattina in un centro commerciale di Roma. È uno dei sei più grossi intorno alla capitale ed è la seconda volta che mi capita di entrare in questi transatlantici dell’acquisto: grandi, anonimi, luci, neon, vetro, cemento. Sono con mia moglie alla ricerca di un tavolo da pranzo e quello che ci piace, lo vendono solo qui.
Questo centro commerciale è organizzato in casette. Intorno gli spazi desolati della periferia vicino all’aeroporto. L’ingresso è come quello di un piccolo paese. Ci si mette in fila lungo l’accesso principale come fossimo ad una partita di calcio o ad un concerto. Si accede all’ingresso, ci si contende il parcheggio. Tutto come da routine.
La fila delle persone cresce di ora in ora e si disperde lungo i vari negozi disseminati in piccole strade. Sembrano quei villaggi che da piccoli si costruivano con la Lego.
Ci sono famigliole, giovani coppie, anziani, pensionati. Gruppi di amici si sono dati appuntamento. Le donne sono le più scatenate. Si portano appresso mariti e bambini rassegnati. La maggior parte cammina con aria assente e ipnotica. Guarda, entra, gira. Non tutti quelli che sono arrivati qui comprano qualcosa; anzi mi vien da dire che la maggior parte alla fine della giornata tornerà a casa senza niente.
E poi ci sono i cani, tanti cani. Provo a fare un piccolo test lungo una delle vie principali. Conto carrozzine o guinzagli. Quadrupedi contro bambini: alla fine vincono i primi ventidue a dodici.
Dentro i punti vendita è tutto un vociare, un guardare, un cercare di attirare l ‘attenzione dei giovani commessi tutti uguali: giovani, carini, disponibili quel giusto per gestire un rapporto impersonale di pochi minuti. Qualche spiritoso si sdraia su un letto in esposizione e comincia a saltare sul materasso per valutare la robustezza. Un altro investe di domande tecniche un addetto al reparto tv per mezz’ora e poi non compra nulla. Buste, depliant, fameliche occhiate alle ‘offerte’. E poi via in un’altra casetta.
Riusciti a ordinare il prezioso manufatto (ma non è stato semplice) ci sediamo in un locale all’aperto a mangiare un boccone. Gustando lentamente un’ottima ma un po’ cara carne alla brace, riprendo a osservare l’anonimo passeggio. Uno spicchio di sole attira a uscire, girare, guardare. Le auto aumentano sempre di più. La gente anche.
L’insieme mi trasmette una vaga inquietudine. Penso che in fondo anche un mercato dei primi del Novecento (o magari anche del Medioevo…) fosse così. Un luogo di aggregazione. Un posto per incontrarsi e fare quattro chiacchiere. Ma so che non è vero.
Anni fa mi era capitato per lavoro di assistere a una riunione di un gruppo di autoaiuto per tossicodipendenze. Tra le tante cose positive che mi avevano colpito, c’era stato l’intervento di un ragazzo che confessava candidamente come la droga gli servisse per ‘annullare’ il tempo.
Il paragone, certo estremo, mi torna in mente seduto a questo tavolino. Anche qui la gente viene per ‘passare il tempo’. Quanti modi sofisticati e esaurienti questa società ha elaborato per distrarci! L’infinita offerta tv, lo shopping, l ‘industria del ‘beauty’ e del cibo, la rete, i weekend per ‘staccare la spina’ e le vacanze intelligenti. Tutti modi per non porsi troppe domande e arrivare a fine giornata quasi senza accorgersene.
Eppure un tempo l’uomo, limitato nella sua cerchia di affetti e familiare, era legato alla vita universale, storica e cosmica, in un modo assai più saldo di oggi. “Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della croce e con questo solo gesto si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro. (Andrej Sinjavskij)”.
Ecco che cosa manca a questo sabato: non il tempo, ma il suo senso. E uscendo mi aspetto di poter scorgere prima o poi, tra le tante casette del villaggio commerciale, anche l’inconfondibile sagoma di un campanile.
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