Il 20 gennaio scorso, dopo aver prestato giuramento di fronte al presidente della corte suprema John Roberts Jr., Donald Trump ha pronunciato il suo primo discorso in veste di Presidente degli Stati Uniti d’America. Dopo aver cercato il testo integrale nel gran mare della rete Internet, ho provato a ricavarne una «word cloud», una rappresentazione grafica del testo, in cui risaltassero, per grandezza, le parole più utilizzate. Ho usato un servizio on-line (http://www.wordle.net/). Il risultato è quello illustrato.
«America, American, Country, People, World, Nation, Protected, Right, New, Great» sono alcune delle parole più frequenti nel discorso di Trump.
Chi ha condotto in questi giorni un’analisi semantica dello stesso testo (come, ad esempio, la software house italiana Expert System S.p.A., che ha svolto un’analisi comparativa dei discorsi di Trump, di Barack Obama del 2009 e di George W. Bush del 2001) ha osservato che quello di Trump si è distinto, rispetto al discorso di insediamento del suo predecessore, per la brevità, per la maggiore snellezza della costruzione sintattica, per la maggiore facilità di lettura.
Il riferimento all’appartenenza nazionale (come denota anche la nostra nuvola con il rilievo dato alle parole «America» e «American») è sicuramente quello più ricorrente e proposto del resto nello slogan che ha accompagnato la campagna elettorale del neo-presidente e che è stato ripetuto anche in chiusura di discorso («We Will Make America Great Again»). Il richiamo identitario è anche rimarcato dalla frequenza con cui ricorre la parola «Nation». Non c’è traccia, nel discorso di Trump, di un qualunque riferimento alle tematiche ambientali (presenti, invece, nel discorso di Obama) mentre spicca il richiamo ad una visione protezionistica dell’economia («Protected»).
La filosofa Francesca Rigotti, invece, ha condotto un’analisi retorico-tematica dello stesso discorso (la si può leggere nelle pagine web della rivista culturale «Doppiozero»). Dal punto di vista stilistico, Rigotti arriva alle stesse conclusione del software Cogito della Expert System: il testo è semplice, costruito con frasi brevi, predilige una struttura coordinata delle proposizioni, «comprensibile». È un discorso, afferma la filosofa, «populista» nel suo richiamo al popolo quale legittimo ed unico detentore della sovranità.
Più interessante è ciò che rileva invece a proposito della struttura concettuale. Trump ha prediletto una struttura oppositiva, fondata sulla contrapposizione «Noi/Loro». La visione che il presidente sembra avere del mondo è una visione tutto sommato semplice, troppo semplice… Da una parte c’è il «Noi»: l’America forte, coraggiosa, fiera; dall’altra, un indistinto «Loro»: tutto il resto del mondo. Questo «Noi», il «We» con cui si apre la Costituzione americana, e cioè il «popolo» americano, ha adesso il suo massimo interprete e garante: Donald Trump. Lo ha detto egli stesso: «la cerimonia di oggi ha un significato speciale perché non stiamo solo trasferendo il potere da un’amministrazione a un’altra o da un partito a un altro, ma stiamo ridando il potere da Washington a voi, il popolo». E questo trasferimento del potere trova Trump a riceverlo in rappresentanza del popolo tutto; è Trump l’argine e l’estremo baluardo del popolo contro lo strapotere o l’egoismo di quella cosa che da noi, da un po’ di tempo, si chiama «Casta» e nel suo discorso è l’«estabishment», quel «piccolo gruppo («small group») che avrebbe dominato incontrastato nella Capitale.
È quindi possibile distinguere un «Noi» ed un «Loro» anche all’interno della grande nazione americana: da un lato «Loro», la casta predatoria, che si è arricchita mentre il popolo americano si impoveriva; dall’altro «Noi». O meglio: «Io», cioè Donald Trump, rifondatore della moralità, della giustizia, dell’orgoglio nazionale, difensore dei lavoratori e ridistributore della ricchezza.
Dopo l’insediamento del 45° presidente degli Usa, i partiti nostrani della Lega Nord e del Movimento 5 stelle hanno esultato. L’eurodeputato Matteo Salvini ha riconosciuto in questo evento «la rivincita del popolo»; in modo più criptico, il capo del Movimento 5 stelle ha invece commentato, dal suo blog, che l’elezione di Trump rappresenterebbe «un VDay pazzesco».
Resta il fatto che il discorso di Trump riassume bene ciò che sta avvenendo (ormai da molti anni) nelle enciclopedie politiche di quelle che un tempo sapevamo riconoscere come «Destra» e «Sinistra». Quella linea di demarcazione tra due visioni del mondo che si sono confrontate nel corso del Novecento e che, ai primi segnali di sbandamento culturale manifestatisi a seguito della fine della Guerra fredda, Norberto Bobbio aveva richiamato in un fortunato libretto (Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, uscito da Donzelli nel 1994), sembra sempre più sfumata e impercettibile.
Trump parla al «popolo», difende i «lavoratori», preannuncia la ridistribuzione della ricchezza. Certo, tutto nel nome di una visione che fa perno su valore supremo della «Nazione» e che si traduce in una chiusura protezionistica rispetto alla globalizzazione. I vocabolari politici si confondono e ci restituiscono una pericolosa e densa marmellata in cui scompaiono le differenze tra una «Destra» e una «Sinistra». Queste due etichette, osservava appunto Bobbio, rischiano di diventare mere finzioni, se «di fronte alla complessità e alla novità dei problemi che i movimenti politici debbono affrontare i “destri” e i “sinistri” dicono su per giù le stesse cose, formulano, a uso e consumo dei propri elettori, più o meno gli stessi programmi, e si propongono gli stessi fini immediati».
Più o meno negli stessi termini si è espresso, in anni più recenti, Jean-Claude Michéa, che ha denunciato (e documentato) come la sinistra occidentale dei nostri tempi non abbia più molti legami con la storica tradizione socialista. «Da più di trent’anni – scrive Michéa nel suo I misteri della sinistra, tradotto in italiano nel 2015 –, in tutti i paesi occidentali, lo spettacolo elettorale si svolge essenzialmente nel segno di un’unica alternanza tra una sinistra e una destra entrambe liberali che, a parte qualche dettaglio, si accontentano orami di applicare a turno il programma economico definito e imposto dalle grandi istituzioni capitaliste internazionali».
Era il 1998 quando il Nanni Moretti di Aprile incitava il segretario del suo partito a dire «qualcosa di sinistra». Se Donald Trump, che secondo «Forbes» disporrebbe di un patrimonio personale di quasi quattro miliardi di dollari, si presenta come difensore delle classi lavoratrici impoverite dal liberalismo imperante e dalla sua «logica disumanizzante, non ugualitaria e predatrice sul piano ecologico» (così si esprime Michéa), qualcosa, in quest’ultimo quarto di secolo, non deve aver funzionato. A sinistra.
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