Almeno sulla carta la prima regola aurea, di validità intuitiva, che dovrebbe ispirare le diverse forme di confronto e di discussione pubblica è quella che i pensatori medioevali chiamavano explicatio terminorum: la definizione dei concetti impiegati nella discussione, nei loro significati e nei loro contesti di legittimo uso.
L’immagine dell’esplicazione ha a che fare con il dispiegare, con il mettere in chiaro ogni particolare o dettaglio, come quando si stende una tovaglia stirata su un tavolo. Il suo scopo è di rendere più evidenti e trasparenti le condizioni e le premesse che rendono possibile un duro ma leale confronto tra tesi diverse. Se si vuole fare un uso appropriato del linguaggio nulla deve restare implicito, sottinteso, nascosto. In particolare, bisogna sciogliere le ambiguità delle parole in modo che chiunque sia messo in grado di dialogare in modo paritario, corretto e proficuo.
Tra le sue tante caratteristiche, il pensiero medioevale includeva l’indagine sulle modalità di conduzione del discorso, che spesso erano anche modalità didattiche, volte a esercitare i seguaci di un maestro di dialettica nell’impiego dei «ferri del mestiere». La sua forma principale era la disputatio, la contrapposizione di opinioni. L’ingaggio di ogni disputa consisteva nella quaestio, la formulazione del problema in oggetto mediante una o più domande pertinenti.
Una prima fase dialogica circa i termini e i limiti del problema avrebbe dovuto sempre precedere quella che i pensatori medioevali consideravano l’autentica essenza della dialettica: una competizione – insieme vigorosa e sottile – tra due o più interlocutori attraverso il vaglio reciproco di argomenti contrapposti nel corso del confronto. Il convenire sui termini avrebbe tolto di mezzo gli arzigogoli retorici e sofistici, lasciando libero campo alla ragione guidata dalla fede.
Il fine «costruttivo» della competizione non andava cercato nella supremazia finale di un argomento (e di un argomentatore) rispetto ad altri, come nella retorica, bensì nella condivisione di un fondamento comune. La concordanza sul senso delle parole era la tecnica discorsiva mediante la quale disciplinare un ingaggio agonistico tra rivali leali, ossia motivati a trovare un terreno di intesa. Il presupposto della lealtà rinvia a un codice etico tacitamente o esplicitamente condiviso. Questo compito preliminare di definizione sottintendeva un rimando accertabile tra oggetti o concetti da una parte e termini, o nomi, dall’altro. Se mi riferisco a qualcosa di non accertabile, è lecita ogni fantasticheria. Proprio per evitare valutazioni soggettive, molti pensatori postularono una stretta corrispondenza tra l’ordine delle cose e l’ordine delle idee.
Con il cristianesimo, dalla tarda antichità fino alla scolastica, l’esegesi preliminare dei termini andava ancorata ad una gerarchia di autorità: in successione, il Nuovo Testamento; gli Atti degli Apostoli; il Vecchio Testamento; i Padri della Chiesa; i grandi teologi; i pensatori antichi ritenuti precursori del cristianesimo perché dotati di un lume razionale non in contrasto con il lume della fede; e, in negativo, per contrasto, le diverse correnti ereticali. L’autorevolezza delle fonti doveva produrre degli exempla idonei ad avvalorare gli argomenti introdotti nella disputa. La scomparsa del principio di autorità ha generato l’estinzione di questa procedura.
Tra l’Umanesimo e il tardo Rinascimento, grosso modo tra Valla e Spinoza, gli apparati argomentativi cominciarono a includere il ricorso alla filologia e alla storicità del linguaggio e in parallelo ad escludere l’autorità conferita ai testi e alle tradizioni. La ferma convinzione del medioevo – la possibilità di sciogliere ogni ambiguità linguistica per consentire di vagliare al meglio la tenuta strettamente logica di un argomento – prese così a vacillare. Le stesse matematiche, che gli antichi avevano considerato probatorie proprio per la chiarezza e la precisione dei loro assunti, divennero portatrici di ambivalenze, come nei paradossi dell’infinito ben evidenziati da Cusano. Di più: tali ambivalenze apparvero feconde e non più ostacoli e pietre d’inciampo poste sulla via di un confronto aspro ma persuasivo.
Un tempo materia da sbrogliare, il linguaggio avrebbe semmai dovuto evocare, senza per forza chiarire, ogni zona d’ombra prima di affidarsi al potere della logica. Nelle procedure argomentative, l’intuizione è più forte e più ricca, sintetica e sinottica, di ogni esplicazione razionale. L’indefinitezza dell’evocazione costituisce un avvicinamento piuttosto che uno smarrimento. Con l’avvento dell’ermeneutica il fine dell’interpretazione/definizione si è spostato: da tentativo di rendere di comune comprensione un significato rimasto sottinteso o oscuro, che l’argomentazione o la definizione devono rendere espliciti e comunicabili, a formazione e stratificazione di significati.
Le pieghe del linguaggio nascondono qualcosa di extralinguistico, che il linguaggio da sé non è in grado di attingere. Non sono più la singola parola o l’argomentazione a dover essere spiegate. Tutto va messo in causa, perché il linguaggio rinvia sempre a qualcosa di retrostante. Il mondo della vita non è asettico come un’astratta ratio, perché si regge su moventi, intenzioni e ordini di esperienza spesso non chiari e non formulati in sede linguistica.
Negli ultimi decenni qualcuno (Lacan e Derrida tra i più noti) ha tentato di varcare anche questa frontiera, cercando di restituire l’ambivalente caos delle stratificazioni di senso attraverso una scrittura arcana e artificialmente oscura.
Al termine di questo cammino, il fine dell’explicatio terminorum non consiste più nel fissare le premesse razionali di un’argomentazione o di un dialogo, ma nel cercare di facilitare i processi decisionali, specie quando i decisori sono plurali e si presentano come attori e/o latori di istanze diverse e di complessa conciliazione. Di qui il rilievo politico – ad esempio nel liberalismo di Rawls – di una convergenza preliminare in grado di rappresentare e mediare punti di vista diversi, nella forma non già di un compromesso più o meno pattizio, bensì di una ricerca di convergenze che pretendano un effettivo, trasparente e verificato consenso tra le parti. È il celebre overlapping consensus, l’accordo che nasce per l’intersezione di interessi e moventi che appaiono inconciliabili solo se disposti in una logica di contrapposizione.
Al di là di questi mutamenti, la necessità di alcuni preliminari strumenti esplicativi non ha deviato l’intento originario di favorire il dialogo attraverso un’intesa sui termini del discorso e l’individuazione di un denominatore comune. Questo convenire poco si apparenta con le convenzioni e le convenienze. Senza un assenso iniziale sui concetti impiegati nel discorso e sulle sue modalità di svolgimento, non può esistere un confronto, ma solo una contrapposizione conflittuale. Ove mancasse questo convenire, anche le trame delle convenzioni e delle convenienze finirebbero per lacerarsi senza costrutto. In un mondo dominato da monologhi e ostensioni verbali quasi sempre oppositive, un ritorno alla tradizione non può che essere salutare se vogliamo migliorare la nostra convivenza.
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