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Spettacoli

LA NOTTE DEL POETA

MANIGLIO BOTTI - 20/01/2017

tencoTra qualche giorno, il 26 di gennaio, ricorreranno cinquant’anni esatti dall’inizio della funesta diciassettesima edizione del Festival di Sanremo del 1967 e dalla morte per propria mano, nella notte seguente, del cantante e autore Luigi Tenco, che all’epoca stava a due mesi dal compiere i ventinove anni.

A mezzo secolo di distanza da quell’evento che segnò in modo indelebile la storia del costume del nostro Paese, e non soltanto del mondo della canzonetta, se ne parla ancora, e se ne cercano le ragioni, le spiegazioni, come se fosse accaduto da poche ore. Perché un suicidio, la morte di un giovane, quel gesto – scrisse il poeta Salvatore Quasimodo – “va al di là di ogni sdrucciolevole simbolismo beat”.

Intanto, bisognerebbe sgomberare il campo dei misteri. Come sempre, ognuno può rifugiarsi nella dietrologia e nel complotto che preferisce. Ma quella morte – così affermò una decina di anni fa in modo definitivo la magistratura al termine di una sua nuova inchiesta, e anche dopo una riesumazione di cadavere – fu proprio un suicidio: Tenco, che alloggiava in una camera del seminterrato dell’hotel Savoy, a Sanremo, nella notte tra giovedì 26 gennaio e venerdì 27 – per l’esattezza alle prime ore del venerdì – si tirò un colpo alla tempia con la sua pistola Walther Ppk. Anche il bossolo del proiettile cal. 7.65, che sembrava sparito alimentando così gli spazi del “mistero”, fu ritrovato in possesso di un collezionista che l’aveva acquistato a un’asta di reperti giudiziari, e sottoposto a perizia balistica.

Luigi Tenco, in un biglietto che lasciò scritto, dopo che la sua canzone – Ciao amore, ciao – presentata al Festival insieme con la cantante francese Dalida era stata scartata dalle giurie, motivò il suo gesto con le seguenti parole: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro!) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda ‘Io tu e le rose’ in finale e una commissione che seleziona ‘La rivoluzione’. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.

Si “chiarirono” le idee del pubblico grazie a quest’estremo sacrificio? La risposta è immediata e inevitabile: no. Mike Bongiorno, che quell’anno presentava il Festival, per quanto imbarazzato e forse commosso continuò: “The show must go on”. Si tenne la seconda serata e il sabato, alla proclamazione, risultò vincente la canzone – dal titolo guarda caso che sembrava studiato apposta – portata sul palco da Claudio Villa e da Iva Zanicchi: “Non pensare a me”. La canzone “Io tu e le rose”, che era stata preferita dal pubblico a quella di Tenco (Orietta Berti e Les Compagnons de la Chanson, all’epoca ogni brano veniva cantato da due interpreti), arrivò quinta. Si classificò ultima invece “La rivoluzione” (Gianni Pettenati e Gene Pitney), che però al botteghino fece pur sempre riscontrare un certo successo, superando per esempio il brano dei Rokes rimasto famoso: “Bisogna saper perdere”. Nel prosieguo degli anni, anche di quegli anni, se si fanno scorrere gli indici della Hit parade italiana salirono ai vertici canzoni belle e meritevoli – almeno secondo il criterio indirettamente suggerito nel disperato addio di Tenco – e canzoni meno fondamentali. Ma canzoni che piacevano, che giravano nell’aria e che entravano nei cuori. Ad alcuni sì, ad altri no, ad altri meno.

Il non avere capito questo è il nocciolo della questione. E non tanto per il dramma interiore ed esistenziale di Luigi Tenco che, prima di arrivare al Festival era anche stato contestato da qualche frangia estremistica di giovani, e che negli anni precedenti aveva composto canzoni belle – a detta della critica o del successo subito trovato tra il pubblico – e meno belle. È quanto per ciò che noi stessi intendiamo e avvertiamo nell’ascoltare o riascoltare una canzonetta.

Ma ripensando alle canzoni che aveva scritto Tenco, prima di quella serata tragica di Sanremo, e forse anche della canzone che portò al Festival, possiamo affermare oggi che la sua cifra fu la poesia e una rottura degli schemi (“Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”). Di certo, come si disse poi, non si poteva sostenere che Luigi Tenco fosse un personaggio “sempre allegro e pieno di vita”. Tenco non era un personaggio comodo.

Forse, per uno come lui, fu sbagliato andare a Sanremo (alcuni cantanti non vi hanno mai messo piede). Ma non si può dire. In quel tempo, per esempio, stava vivendo una storia con la cantante Dalida, che sparì poche ore dopo il suicidio dell’amico, fatto che contribuì a rafforzare il mistero. Ma anche Dalida non fu una donna fortunata, e morì anch’ella suicida vent’anni dopo con un’overdose di barbiturici (sulla vita della cantante si sta girando proprio in queste settimane un film diretto da Lisa Azuelos e interpretato dalla nostra Sveva Alviti).

Dopo la morte di Tenco si costituirono in tutt’Italia diversi club a lui intitolati (il più importante a Roma), e – a partire dal 1974 – un Premio di musicisti e autori – il meglio della tradizione italiana e straniera – che, a Sanremo, sarebbe andato a costituire una specie di controfestival. Lo spettacolo, dunque, in qualche modo continuò. Ma dopo quella sera del 26 gennaio 1967 non si può dire che tutto sia rimasto come prima.

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