Negli ultimi mesi ho avuto modo di frequentare un giovane richiedente asilo conosciuto per caso: MD, un giovane ivoriano che compirà 24 anni a maggio. Un po’ alla volta, vincendo l’ostacolo della lingua e della sua riservatezza, ho appreso le circostanze che lo hanno indotto a fuggire dal suo paese.
Se ci limitiamo a osservare le tragedie della storia attraverso categorie generali, i casi umani non prendono corpo e forma, non smuovono la mente e ancor meno il cuore. Ma se possiamo osservare una storia di vita da vicino nella sua unicità, la mente e il cuore si aprono, perché il capire fa spazio al comprendere.
Alcuni considerano migranti, profughi e richiedenti asilo dei puri dati statistici: «Quanti sbarcati? Quanti soccorsi? Quanti ospitati? Quante donne? Quanti bambini e adolescenti senza familiari? Da quali paesi? Di quale religione? Con quali titoli di studio?». Le cifre non ci dicono perché una persona abbandona la sua città d’origine e le persone care per tentare un viaggio disperato, al limite della follia, quasi senza mezzi, pur di salvarsi e schiudere una qualche prospettiva alla propria vita. Così leggiamo quei dati con altre categorie generali esplicative – la povertà, la guerra, la discriminazione, la disperazione –, senza coglierne le radici effettive e le situazioni che li generano.
Eppure si tratta di persone, ciascuna è un caso a sé, ogni storia è diversa da un’altra. Solo il racconto può restituirci gli intrecci che la determinano. Pochi si prendono la briga di ricostruire e comprendere le storie: non l’opinione pubblica, non i giornalisti, non chi si occupa dei profughi, non i commissari chiamati a decidere sul loro destino, non le forze di polizia, meno che mai i politici. Tutti tendiamo a dimenticare quanto sia comune anche in un paese ricco come il nostro trovarsi con le spalle al muro e non avere scelta.
MD è un ragazzo mite, prudente, con «la testa a posto»; una persona semplice, socievole, dinamica. Evita comportamenti e frequentazioni a rischio, o che possono essere scambiate per tali; ambisce a lavorare legalmente, ad avere una casa e una famiglia, a imparare l’italiano e il francese, ad avere amici tra gli italiani e i propri connazionali. La forza di volontà lo aiuta a colmare i deficit della sua formazione. Mira a integrarsi: frequenta i corsi EDA; un pensionato gli insegna a titolo gratuito il mestiere di saldatore; alla parrocchia della Brunella partecipa a un corso per catecumeni. MD si è trovato bene a Varese e spera di costruire qui il suo futuro. Non ha parenti da raggiungere in altri paesi d’Europa.
Il padre di MD era un mediatore nella vendita del cacao dai contadini produttori agli esportatori. Aveva un magazzino e alcuni camion in una piccola città non lontana da Yamoussoukro. Per decenni il prezzo del cacao ha continuato a scendere. I guadagni sono diventati meno buoni. Però la famiglia non poteva dirsi povera. Le entrate dell’azienda paterna sono sempre state sufficienti per dare da vivere a nove persone. MD era convinto di avere un futuro grazie al lavoro del padre.
Nell’arco della vita di MD la Costa d’Avorio ha cambiato volto. Era considerata un paese modello ed è diventata un inferno. La pace religiosa ed etnica del paese è letteralmente saltata in aria. Dalla dittatura paternalistica di Houphouët-Boigny si è passati a dittature sempre più pesanti e violente, finché la guerra civile ha avvelenato tutto. Ostilità etniche e religiose, insicurezza, ricorso alla forza nelle relazioni interpersonali, faide familiari, furti, stupri e corruzione sono diventati fenomeni ordinari anche nelle zone non investite dalla guerra.
MD appartiene all’etnia Djoula, del ceppo dei Mandingo, numericamente dominante nell’Africa francofona. Storicamente dediti all’agricoltura stanziale, legati più di altre etnie a quel poco che sopravvive delle tradizioni, meno istruiti rispetto ai Baoulé e agli Akàn, i Djoula sono divisi tra una maggioranza musulmana e una minoranza cristiana. Ma le religioni sono uno strato steso sulla superficie di abiti mentali tradizionali. Le nostre usuali etichette servono a poco.
Il padre di MD era poligamo. In teoria la poligamia è illegale; di fatto è ancora praticata e tollerata. La si aggira facilmente. Basta non registrare i matrimoni (o almeno il secondo) negli uffici anagrafici. È sufficiente la presenza di testimoni: gli anziani, i parenti, gli amici. La madre di MD era la seconda moglie (o compagna o anche concubina, se preferite). La tradizione impone una gerarchia da rispettare. Il capofamiglia impera. La prima moglie è più importante e comanda sulle altre; i figli della prima moglie sono più importanti e comandano sugli altri; i figli maggiori hanno più autorità dei minori; i fratelli hanno più autorità sulle sorelle. Il padre aveva avuto dalla prima moglie tre maschi e una femmina. In teoria l’eredità è regolata dalla legge, e tutti i figli hanno gli stessi diritti. Ma la legge non è applicata. Sono le donne a patire di più le conseguenze della poligamia. Una volta vedova, la seconda moglie riceve l’indispensabile per vivere solo se accetta di servire la prima moglie e i figli di lei. A loro volta, i figli della seconda moglie sono meno «legittimi» dei primi. La poligamia priva i più deboli dei loro diritti. Per farli valere devono potersi pagare prima la polizia e poi un avvocato.
Il padre di MD era musulmano, e come lui la prima moglie. Sua madre invece aveva ricevuto il battesimo dai genitori. Quando si sposò, il marito la obbligò a diventare musulmana. Lei obbedì, ma in qualche occasione ha continuato a frequentare la chiesa. E ha spinto MD e suo fratello, di cinque anni più piccolo, ad andare in una chiesa cattolica almeno nei giorni di Natale e Pasqua e alla veglia nella notte dell’ultimo giorno dell’anno, quando la festa popolare si sovrappone alla liturgia religiosa. MD ha imparato dalla madre il segno di Croce, il Padre Nostro, l’Ave Maria e i dieci comandamenti. Tra le sue ultime raccomandazioni prima che MD partisse, vi era quella di battezzarsi.
Il padre di MD è morto di cancro nel 2013, a 61 anni. Fino ad allora i due rami della famiglia avevano convissuto senza conflitti, in due parti distinte della casa. L’autorità maritale fa sì che le mogli e i figli si rispettino reciprocamente. La scomparsa del padre ha rotto gli equilibri e ripristinato le gerarchie. Sono iniziate le discriminazioni, e con esse i litigi, le dispute e le minacce. La prima moglie e i fratellastri non volevano dividere l’eredità. Dopo tre mesi MD, sua madre e suo fratello sono stati cacciati dalla casa. Basta un niente per essere privati di che vivere.
Gli africani conoscono bene l’arte di arrangiarsi: finché si può si vive di minute solidarietà, di piccoli lavori e di espedienti. In cambio di vitto e alloggio MD ha lavorato temporaneamente come apprendista saldatore presso un amico. Non ha rinunciato a rivendicare i suoi diritti. Ma i parenti e gli amici del padre si sono defilati. I fratellastri hanno insistito con le minacce. Una volta è comparso un coltello, e la madre di MD è rimasta lievemente ferita.
La paura e la solitudine sono sopraggiunte insieme. La denuncia alla polizia non ha avuto esito, perché i poliziotti agiscono solo se «oliati» a dovere. Alla discriminazione è subentrata l’esclusione, senza alcuna protezione da parte della comunità e delle autorità. E all’esclusione segue quella povertà assoluta che solo l’Africa conosce. I due fratelli decidono di partire per l’Europa: è l’inizio di luglio del 2014. In tasca hanno 150.000 franchi CFA, 225 euro, frutto di una colletta tra amici. La madre intanto va a servizio presso dei parenti, fino a morire pochi mesi dopo, a 46 anni, senza sapere più nulla dei due figli. Vi sono diversi gradi di povertà. Quella finale di MD è il frutto congiunto della mentalità tradizionale, della poligamia, della mancanza di leggi, della debolezza e della corruzione delle autorità, dell’assuefazione alla violenza e dei pregiudizi religiosi.
MD e il fratello raggiungono il Burkina Faso in treno, di lì il Niger con il taxi-brousse e poi, grazie a dei passatori, Sheba, poco oltre il confine libico. Il loro obiettivo è Tripoli, dove sperano di lavorare quanto basta per pagarsi l’attraversamento del Canale di Sicilia in gommone. Ma a Sheba vengono imprigionati dalla polizia. Per essere liberati servono soldi, e i due fratelli non ne hanno più. I poliziotti però sono intraprendenti: trovano un lavoro ai due, un misero vitto e un misero alloggio, senza paga, e sarà il datore di lavoro a compensarli.
Alla scadenza del tempo concordato, i due fratelli si separano. Il più giovane si dirige direttamente a Tripoli. MD resta, per continuare a lavorare a pagamento. Una settimana dopo il fratello viene arrestato a Tripoli dalla polizia, e scompare nel nulla. MD parte per cercarlo. Trascorre quindici mesi a Tripoli, scansando ogni insidia. Non trova il fratello, ma trova lavoro. Con i risparmi paga il gommone; il suo datore di lavoro libico gli procura il contatto e pattuisce uno sconto sul prezzo del trasbordo. Secondo la regola, MD si imbarca senza bagaglio e senza documenti. Ha con sé qualcosa per ripararsi dal freddo, un cellulare e due foto di famiglia protette dall’acqua del mare da un sacchetto di plastica. Viene tratto in salvo in mare aperto da una nave militare italiana il 22 dicembre 2015 e viene accolto dalla Capitaneria di Trapani. Di lì la prefettura lo indirizza su Varese. Qui contatta i parenti della madre e ne apprende la morte.
A Varese gli viene assegnato un posto letto in un appartamento. Tramite la cooperativa che lo accoglie entra in contatto con la comunità ivoriana. Ora attende il responso della Commissione. Chiede solo di integrarsi. Difficilmente il diritto di asilo gli sarà riconosciuto. In quel caso dovrà lasciare l’appartamento e arrangiarsi, senza permesso di soggiorno. Succede a tanti.
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