Strano… In un tempo come il nostro, nel quale tutti inseguono l’anniversario del giorno per celebrarlo e spargere fiumi d’inchiostro e spesso di inutili parole, sembra sia stata dimenticata la data del 2 gennaio. Al 2 gennaio del 1927 (quindi, per gli amanti delle cifre tonde, novant’anni fa), risale il regio decreto che istituiva la Provincia di Varese.
So bene che in questo momento storico parlare di Province potrebbe sembrare non molto delicato. (A proposito, esistono? Esisteranno? Boh…?). Tuttavia, l’elevazione della città di Varese a capoluogo di provincia fu certamente un evento non trascurabile e che segnò profondamente la storia di questo borgo. Il provvedimento era stato già annunciato al sindaco di Varese (che di lì a poco sarebbe diventato podestà) dallo stesso Capo del Governo con un telegramma inviato il 6 dicembre del 1926:
«Oggi su mia proposta il Consiglio dei ministri ha elevato codesto Comune alla dignità di capoluogo di provincia. Sono sicuro che col lavoro e colla disciplina e colla fede fascista codesta popolazione si mostrerà meritevole dell’odierna disciplina del governo fascista. Firmato Mussolini.»
A molti è piaciuto pensare che questo atto sia stato stimolato dal basso, dagli stessi varesini. E in effetti, sappiamo dell’iniziativa intrapresa da alcuni notabili locali e sollecitata dal fondatore e direttore del quotidiano «Cronaca Prealpina», Giovanni Bagaini, per reclamare la nascita della nuova provincia. A tal fine fu redatto un memoriale, il cui estensore materiale fu l’avvocato Giulio Moroni, consegnato il giorno di Santo Stefano del 1923 a Milano nelle mani di Alessandro Chiavolini, segretario particolare di Mussolini.
Tuttavia, il decreto che istituì la provincia di Varese, insieme ad altre sedici nuove province, era funzionale alla profonda opera di ristrutturazione politica, economica e sociale in senso totalitario intrapresa da Mussolini. In uno Stato che andava organizzandosi in modo rigidamente gerarchico sarebbe ridicolo pensare al generoso riconoscimento di una «autonomia locale» (e non sappiamo se quel memoriale arrivò mai nelle mani del duce).
La stessa definizione dei confini del nuovo territorio provinciale, come pure la profonda revisione delle circoscrizioni comunali e dei circondari di Varese e di Gallarate («una vera rivoluzione» ebbe a definirla lo storico Luigi Ambrosoli), sembrò rispondere a ragioni di carattere meramente politico. Si trattò di rafforzare il confine con la Svizzera, approdo dei fuoriusciti antifascisti, con centri in cui poter distaccare commissariati di polizia; in qualche caso si vollero premiare località in cui più importante era stata l’azione del fascismo squadrista, così come furono penalizzate altre in cui era stata storicamente radicata la presenza del movimento operaio organizzato.
La nuova provincia di Varese nacque unendo territori precedentemente incorporati negli ambiti amministrativi afferenti a Como e a Milano. Quest’ultima provincia si vide sottrarre una porzione di territorio ad alta intensità industriale come i mandamenti di Rho, Saronno e Busto Arsizio. Se ne dolse pubblicamente il presidente della deputazione provinciale di Milano, Sileno Fabbri, rivolgendosi direttamente al Capo del Governo dalle colonne del «Corriere della Sera» l’8 dicembre del 1926. Pur dichiarando di accogliere le decisioni del governo con «disciplina» e «con sincero animo di collaborazione», Fabbri non poté fare a meno di rilevare che «il distacco da Milano di un territorio così fecondo» avrebbe avuto ripercussioni sul bilancio locale e nazionale, tanto più che le neonate province mancavano delle strutture necessarie per l’adempimento delle nuove funzioni.
In un primo momento le rimostranze dell’autorità milanese trovarono ascolto: il 9 dicembre e il 9 gennaio alcuni dei comuni dei tre mandamenti sopra citati furono riportarti entro gli originari confini amministrativi. Il 31 marzo, tuttavia, i comuni di Busto Arsizio, Castellanza e Sacconago furono definitivamente destinati alla provincia di Varese. Ma il risentimento nei confronti di scelte che oggi definiremmo centraliste covò per tutto il ventennio, manifestandosi pubblicamente all’indomani del 25 aprile.
La città di Varese, piccolo borgo elevato al rango di capoluogo di provincia, fu interessata da una profonda opera di ammodernamento delle strutture e dei servizi. Anche in questo territorio il fascismo volle lasciare impresso il suo segno indelebile nelle pietre. Nella primavera del 1929 l’amministrazione comunale volle ripagare il suo duce collocandone un busto in bronzo, realizzato dallo scultore Luigi Rossi di Arcisate, nel salone d’onore del Palazzo estense, divenuto sede dei nuovi organismi amministrativi (e vogliamo sperare che nessuno sia tentato dal riesumarlo per ricollocarlo nella primitiva sede!).
Ma, al di là delle pubbliche attestazioni di fede offerte dai nuovi amministratori con generose acrobazie retoriche, la penetrazione di un sentimento fascista nelle pieghe più profonde della società era tutto da verificare. Nel 1930 fu inviato a Varese dal Partito nazionale fascista l’ispettore Angelo Nicolato per un primo bilancio sull’attività della neonata federazione e per fare un rapporto della situazione politica e sindacale del nuovo territorio. L’ispettore tracciò un resoconto in cui la granitica fede fascista, pubblicamente ostentata, risultava meno monolitica e ben più articolata. Ancora nel 1930 i territori della provincia non sembravano essersi ben amalgamati e permanevano quelle profonde differenze economiche e sociali frutto di storie diverse, che i nuovi confini non potevano di certo cancellare.
«L’abitante della zona di Varese – scrisse l’ispettore del Partito – è apatico per natura e per abitudine: esso è portato a disinteressarsi di tutto quello che non sia strettamente attinente ai suoi commerci. Si aggiunga che nel Varesotto il socialismo era un socialismo all’acqua di rose, tale da non eccitare una possibile reazione. Tutto questo trova contrasto stridente con quanto riguarda la parte della provincia situata nella piana e specialmente a Busto Arsizio, Gallarate, Saronno, che sono centri industriali di primo ordine. Il fascismo in queste zone trae le sue origini dal fascismo milanese, creandovi quasi una tradizione fascista che manca completamente nella parte alta della provincia dove i primi fasci vengono ad essere istituiti nel 1925 o 1926».
Nella stessa relazione si rilevava come i vecchi rancori campanilistici fossero sopravvissuti anche a causa del modo in cui era stata reclutata la nuova classe dirigente del Partito. Questa proveniva prevalentemente dal capoluogo e assomigliava, nelle parole dell’ispettore, a un losco comitato d’affari. I massimi dirigenti del Partito, forti della posizione politica conquistata, sembravano più impegnati nella cura dei propri interessi (per il perseguimento dei quali non lesinavano di esercitare pressioni più o meno violente) che nella dedizione alla causa fascista.
Insomma, l’élite politica che avrebbe dovuto guidare la nuova Provincia appariva – ad un funzionario dello stesso Partito fascista – decisamente scadente, al punto da richiedere un rinnovamento radicale delle cariche. Ma anche i nuovi vertici furono travolti dopo poco dalle accuse di incapacità e debolezza e dalle numerose lettere anonime che partivano da Varese indirizzate alla Segreteria nazionale del Partito, in cui si denunciavano magagne e intrallazzi. Per risanare la federazione provinciale si dovette reclutare nel 1931 Angelo Tuttoilmondo, già segretario del fascio di Busto Arsizio, con un pedigree di tutto rispetto: combattente della Grande guerra e legionario fiumano.
Forse non era molto lontano dalla verità storica lo scrittore Piero Chiara, quando, nel racconto Il povero Turati, del 1962, espresse questo lapidario giudizio sui fascisti che spadroneggiavano in città in quel lontano 1927: «Gli squadristi di Varese erano quattro stronzi di periferia».
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