Il treno filava quasi senza rumore sul rettilineo delle rotaie.
Era il primo pomeriggio di una giornata grigia dopo la grande nevicata, ed egli era in viaggio da alcune ore. Aveva lasciato alle spalle la città, frenetica di luci e decorazioni natalizie. Aveva salutato la portinaia e il giornalaio, rialzato il bavero e preso il treno.
Al momento sonnecchiava sul sedile, in uno scompartimento di prima classe vuoto. Infatti era la vigilia di Natale, l’esodo era ormai avvenuto. Ora respirava un momento di sollievo, dopo la saturazione dei brindisi natalizi con gli impiegati in ufficio, con un gruppo ristretto di dirigenti, con amici…
Approfittando della situazione, si accomodò al meglio e stese le gambe appoggiando i piedi sul sedile di fronte. Realizzò che da molto tempo non viaggiava in treno, ma abitualmente in automobile o in aereo. Da bambino gli piaceva: quando, d’estate, andava al mare e suo padre non li poteva accompagnare stava incollato al finestrino per tutto il viaggio, a immaginare cosa ci fosse dentro ogni casa, o quali misteriose creature si nascondessero tra erbe e campi.
Da quanto non tornava al paese? Fece un rapido calcolo: cinque anni. Da quando sua madre era morta. Quell’evento aveva segnato il distacco definitivo da tutto un mondo, cui attraverso di lei era rimasto in qualche modo legato. Ad esso non pensava più. Perfettamente inserito, con la sua laurea in economia e commercio (bocconiano!) in una importante azienda, con poteri dirigenziali, si era immerso nel lavoro e in una bella vita. Viveva nella grande città, in un appartamento ricavato con altri da un palazzo antico, nel centro storico.
Allorché aveva saputo che sua madre non aveva scampo, si era sentito come se gli avessero detto che avrebbe dovuto vivere senza un braccio, o senza una gamba: a lei era affezionato più che al padre. E il giorno del funerale, mentre nel cimitero di campagna calavano la bara nella fossa, con forza aveva tratto dalla memoria certi pomeriggi infantili, quando con la mamma usciva nei prati a passeggiare, e lei cantava e rideva, e gli pareva la donna più bella del mondo.
Suo padre era diverso. Un uomo chiuso, sempre un po’ distaccato da ciò che gli accadeva intorno. Non ricordava vere confidenze con lui, né giochi da piccolo o partite a calcetto (sua grande passione) da ragazzo. Grande lavoratore, uomo probo, ma non capace di gesti affettuosi, con quel figlio dissimile, tutto chiasso e confusione. Nemmeno nei giorni del funerale erano riusciti a parlarsi, ognuno chiuso nel suo personale dolore.
Poi, in città, la carriera lo aveva catturato. Era bravo, ambizioso, stimato. Con suo padre aveva avuto telefonate, nel tempo. Ma egli non gli aveva mai chiesto: “Vieni a trovarmi?”, né lui aveva detto: ”A Natale verrò”, “ A Pasqua verrò”. Non aveva nemmeno sentito il bisogno di tornare sulla tomba materna. Tanto, lei non c’era più e ai suoi poveri resti non voleva pensare.
Ed ora aveva quarant’anni ed era qui, su questo bel treno, necessitato suo malgrado al ritorno da una pastoia burocratica relativa ad alcuni spostamenti nel cimitero, cui suo padre non si era sentito di far fronte da solo. Infatti, già di parecchio più grande della mamma, dalla morte di lei era precipitato in una sorta di abulia senile. Viveva con una badante, sotto la sorveglianza di una cugina della moglie. Ci fosse stata una sorella, pensava scendendo dal treno, o un altro figlio, ora avrebbe potuto essere con Nadia a New York, come avevano progettato. In questo momento Nadia, con il muso lungo, stava probabilmente cercando qualche persona amica con cui cenare, la vigilia di Natale.
Per raggiungere il paese occorreva prendere una coincidenza su una linea minore, perciò arrivò a destinazione quando la luce ormai stava sparendo. La serata era fredda, la banchina deserta. Una luce fioca proveniva dall’interno della stazione, al cui ingresso qualcuno aveva fatto maldestramente un albero di Natale. Uscì sul piccolo piazzale: un’aiola al centro, con un albero contorto, alcune case grigie ai lati, una fontana e la strada che s’inoltrava a poco a poco nella campagna. Anche lì era nevicato; ora pozzanghere semi ghiacciate rendevano periglioso il cammino. Abituato da anni ai fasti natalizi cittadini, lo squallore del paese lo colpì sgradevolmente. Passò davanti alla chiesa, chiusa per ora, ma con una modesta ghirlanda di luci. Subito dopo c’era il supermercato, poi le case si facevano rade, infine la strada proseguiva come viale alberato fino al gruppo di villette monofamiliari tra cui era la sua.
Camminava a testa china, attento a non inzaccherarsi, mentre un’amarezza inquieta gli invadeva l’animo. Tornare dopo cinque anni senza averlo desiderato, la vigilia di Natale, nel buio, come un esule o un fuggiasco! All’esterno delle ultime case aveva visto decorazioni luminose e intuito dai vetri preparativi per la cena. I suoi ultimi Natali erano stati in luoghi lontani, esotici, o in qualche capitale europea. Ora, su quel viale, si sentiva solo. Intanto spuntava la luna dalle nuvole scure, mentre, in lontananza, un cane abbaiava. Un fruscìo improvviso lo fece sobbalzare: un ramo appesantito dalla neve lasciò cadere il suo fardello. Poi tutto ripiombò nel silenzio. La luna, uscendo dalle nubi e rientrandovi, accompagnava il suo passo e, a tratti, lasciava intuire nei prati sagome scure di casupole o attrezzi.
Arrivò al cancello. Il giardino era immerso nel buio, ma non tanto che non si indovinassero le aiuole, i cespugli e il grande abete. In un flash rapidissimo si rivide bambino, in un pomeriggio dopo le feste di Natale, allorché era stato deciso di piantare l’albero natalizio davanti a casa: il cane che gli saltellava intorno, il padre con la vanga, giovane e gagliardo, la mamma sorridente dietro i vetri.
Le campane cominciavano ad annunciare la messa di mezzanotte quando suonò il campanello. Si accese la luce nell’ingresso, una donna aprì la porta.
“Chi è?”.
“Sono…”, e si fece riconoscere.
“Oh, dottore, sei tu…Tu figlio! Oh che felice sarà padrone, come fatto viaggio? Vieni, vieni”.
Una badante robusta, di mezza età, con i capelli biondi e la pelle chiara, gli sorrideva e lo spingeva quasi, tra felicitazioni ed esclamazioni.
Entrò. Tutto era come quando se ne era andato, cinque anni prima. Esitava a guardarsi intorno, turbato da sentimenti diversi: familiarità, paura di doversi confrontare con il passato, rimpianto e voglia di fuga gli si attorcigliavano dentro.
La donna, sempre parlando, lo precedette ed aprì la porta del soggiorno: egli vide per primo l’albero di Natale illuminato, poi, nell’angolo accanto al termosifone, una sagoma scura in poltrona, con una coperta sulle ginocchia: suo padre. Si fermò sulla soglia. Il padre lo vide, con fatica si alzò, gli andò incontro appoggiandosi a un bastone, mentre tendeva un braccio verso di lui. Quando gli fu vicino poggiò la mano sul suo, stringendolo. E ripeteva il suo nome, quasi con stupore misto a una resa.
Dov’era l’uomo severo, sicuro, che ricordava? Quando si erano salutati, con una stretta di mano, dopo il funerale della mamma, senza parole, sul marciapiede della stazione, aveva pensato che da quel momento sarebbero stati ancora più estranei. Non aveva osservato suo padre ritto nel cappotto nero restare dopo che lui era salito sul treno, e ancora dopo, mentre il treno si allontanava, fino a quando era scomparso alla curva.
“Come stai?”. Il vecchio allargò le braccia, lo condusse alla sedia accanto alla poltrona.
Più tardi trovarono usuali parole, sul tempo, sul viaggio, sul paese…
*
Bevve il caffè al tavolo della cucina, seduto di fronte alla badante. Suo padre si era già coricato, quasi non aveva mangiato.
“Si è molto indebolito ultimamente”, disse la donna. Egli le fece domande più specifiche, mentre la osservava: doveva essere stata bella, da giovane, di quella bellezza materna e insieme sensuale che hanno talvolta le donne dell’est.
“Da dove vieni?”.
“Da…”, e fece il nome di un paese travagliato, diviso da etnie e antichi rancori. Egli sapeva come tremende lotte vi fossero state anni addietro, e ancora permanessero povertà e contrasti.
“Io qui da tre anni”, aggiunse lei. Poi tacque e lo guardò osservandolo.
“Ho un figlio tua età, sai”. E vedendo lo stupore di lui, aggiunse: “ L’ho avuto a quindici anni”, e sorrise.
“E tuo marito? Ce l’hai? Lavora?”.
“ Non lavora. Lui infermo. Mio figlio anche non lavora adesso, con moglie ha due bambini”.
Si era rattristata. Egli non volle indagare oltre. Tacquero. Ma la donna lo guardava come se volesse chiedergli qualcosa e temesse di farlo.
Infine disse: “ Perché tu non venuto mai a trovare tuo padre?”.
Per un attimo la domanda rimase sospesa nell’aria, mentre gli occhi azzurri della badante lo fissavano. Spiazzato, cercava una risposta, ma improvvisamente lei si alzò, lasciandolo. Poi disse che si ritirava in camera, in quella che era stata la sua da ragazzo. Infatti egli aveva insistito per dormire sul divano letto in soggiorno. Voleva libertà di movimento, ma anche gli persisteva dentro una sorta di repulsione a ripercorrere la casa.
Sdraiato sul divano, non prendeva sonno. Perché non era più venuto a trovare suo padre? Poteva rispondere: “Perché mi sembrava che lui non lo volesse”. Oppure: “Perché la mia vita è tanto diversa da quella che è stata la sua”. O ancora: “Perché da lui mi sono sempre sentito giudicato”. La badante non avrebbe capito, né gli sembrava di doverle una risposta. Infine si addormentò,di un sonno inquieto.
La mattina di Natale, assai presto, scivolò silenziosamente fuori di casa.
L’aria pungente gli pizzicava il viso, gli faceva piacere. Prese una strada laterale, mentre ancora la luce faticava a palesarsi. Il cielo, grigio sopra di lui, apriva ad oriente una striscia di luce rosata. Il terreno, coperto da un sottile strato di neve ora ghiacciato, crepitava sotto i suoi passi.
Camminò a lungo divagando, non importandogli del freddo, cercando con gli occhi i riflessi del giorno che via via rilucevano sulla strada.
Il cimitero era piccolo in un’ ampia radura, staccato dal paese: andandovi al sorgere del sole appariva come una piccolissima città, difesa dalle brevi mura bianche, che via via ai primi raggi si mostravano simili a una meta, a un rifugio per il viandante. Da bambino e poi da ragazzo, con gli amici, su quei prati aveva giocato, gridato, anche studiato in primavera. E contro quel muro -ricordò sorridendo- aveva baciato per la prima volta una ragazza. Insomma era un luogo di vita più che di morte, incastonato tra le vicine montagne come una pietra in un anello.
Era aperto, contro ogni regola. Il cancelletto stridette nel silenzio, egli entrò. Alla fine del vialetto diritto che divideva in due parti il camposanto, era la tomba di sua madre: una semplice lapide chiara, che terminava con una croce lavorata nel marmo slanciata verso l’alto. C’era un piccolo sedile di pietra, vi si sedette.
Sua madre lo guardava dalla foto, gli parve con l’espressione che le conosceva quando lo salutava partente dopo un ritorno: “Mi raccomando”, gli diceva sempre. Cosa usava raccomandargli? Talvolta gli aveva dato fastidio, non era un bambino. Oggi, forse, cominciava a capire.
Quante forze aveva speso nel costruire la sua vita? Quante nel diventare “un uomo arrivato”? Arrivato dove? Su quel sedile di pietra, a chiedersi perché non era più tornato a trovare suo padre.
La risposta era lì, tra i compaesani sepolti, nel giardino di casa, nella semplice vita del luogo.
Non che i suoi non avessero apprezzato la sua carriera, non se ne fossero compiaciuti, dopo i sacrifici per farlo studiare. Ma suo padre, una volta, parlando del più e del meno con un amico aveva detto: “Già, le cose che si possiedono in sé non sono né buone né cattive, dipende dall’uso che se ne fa, dallo spirito con cui le si possiede…è il potere, il potere, anche un piccolo potere che può mutare un uomo…”.
Tornando verso casa, pensò alla vita sua e di Nadia. Anche lei lavorava, in un giornale femminile. Si occupava d’arte, scriveva recensioni di mostre e spesso viaggiava. Le aveva regalato per Natale una bellissima borsa firmata. E stavano pensando a un’automobile nuova.
Rientrato, la badante gli si fece incontro sorridendo. “Dottore, buongiorno! Caffè caldo pronto!”. Non appariva stupita nel vederlo rientrare da un’uscita tanto mattutina. Aveva capito dove potesse essere andato? Le madri hanno un intuito speciale.
Poi il Natale si snodò semplicemente. Nel pomeriggio la donna andò a trovare una conoscente, a casa vennero parenti che non lo vedevano da tempo… Il padre appariva rinato: più colorito, più loquace, mangiava con gusto. Il giorno dopo Santo Stefano egli si recò in comune, ad assolvere il compito per cui era venuto. Sarebbe ripartito la mattina seguente.
La sera di quel giorno, dopo cena, padre e figlio sedettero accanto al camino acceso. Il giovane sul tappeto, a gambe incrociate, come fanno i ragazzi. Parlarono come prima non era mai avvenuto: di politica, di economia, della situazione del Paese. Il padre volle conoscere dettagli del lavoro del figlio, gli chiese quale fosse il suo ruolo nell’azienda. Ascoltava con grande interesse.
Poi cadde un lungo silenzio. Si sentiva solo il crepitìo delle fiamme, danzanti in alte lingue rosse. E, ad un tratto, egli avvertì la mano del padre sulla spalla.
“Sei felice?”. Per la seconda volta in quei pochi giorni si sentì spiazzato.
“Credo di sì”, rispose esitando.
“Lo credi o lo sei?”.
Non sapeva che dire.
“Tua madre ed io lo siamo stati”, continuò il vecchio dopo un poco, “ma non per un dono, o per un miracolo. E non è stato sempre facile, guadagnarci la felicità. Avevamo un’intesa, un progetto: anteporre sempre ciò che credevamo giusto a ogni altra cosa. Essere fedeli a certi principi, a noi stessi. Il che”, e sorrise guardandolo, “ha comportato delle scelte, delle rinunce. Decidemmo di non percorrere mai le strade più facili che ci avrebbero dato più denaro, o maggior prestigio. Scegliemmo di vivere semplicemente, in questo piccolo paese. E tu sai che tuo nonno materno ci aveva offerto altre possibilità…”.
Tacque ancora un poco, poi aggiunse: “Io sono orgoglioso di te, del tuo lavoro, del potere decisionale che hai, ma…tu lo sai…tutto passa. Godi ciò che hai, ma sii preparato a perderlo”. Si alzò, stanco. Di nuovo gli carezzò la spalla, prima di uscire dalla stanza. Ed egli rimase lì, davanti al fuoco che andava lentamente spegnendosi.
La mattina dopo il padre volle a tutti i costi accompagnarlo alla stazione, nonostante il freddo pungente. Sulla banchina, tra pochi pendolari, stettero in disparte aspettando. Come non avrebbe mai creduto, egli provava dolore a partire.
“Torno presto”, disse mentre abbracciava per la prima volta il padre. E sentì tutta la fragilità del suo corpo sotto il giaccone. Il vecchio rispose soltanto con un cenno del capo, con una stretta di mano più forte.
Sul treno, egli si affacciò al finestrino e rimase a guardarlo, fermo e ritto sul marciapiede, sempre più lontano, fino alla curva dei binari.
Poi sedette, si sistemò. Che strana sensazione provava! Come se fosse nato una seconda volta.
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