Il saggio che proponiamo di seguito è parte di una più ampia ricerca, la cui pubblicazione è prevista nei primi mesi del prossimo anno, che intende ricostruire le vicende storiche della Chiesa Varesina, clero e fedeli, dal 1796 al 1859, lungo il sessantennio nel quale si colloca l’elevazione della città di Varese ad antico borgo (1816). In questo capitolo, dall’autore messo cortesemente a disposizione del nostro giornale, si rievoca la figura di Virginia Staurenghi, Suor Marianna Florinda, che fu abbadessa delle Agostiniane del Sacro Monte anteriormente alla soppressione del convento, avvenuta nel 1798. La Staurenghi tanto lottò per la rinascita del monastero da esserne poi ritenuta una seconda fondatrice. Grazie alla disponibilità delle Agostiniane, l’autore ha potuto visionare alcune lettere-supplica autografe, rivolte da Suor Marianna Florinda all’autorità imperiale, e fino ad ora inedite, delle quali riferisce qui.
Manifestazione eclatante dell’opportunismo di Napoleone dinanzi alla religione, fu il Concordato con la Chiesa Cattolica del 1801. Indiscutibile la sua importanza: riconciliava lo Stato francese con la Chiesa di Roma; notevole inoltre la sua risonanza in Francia e in Italia.
Negli anni, entrambe accrebbero il prestigio del Primo Console e poi Napoleone I, Imperatore dei Francesi e Re d’Italia. Napoleone governò quest’ultima per il tramite del viceré Eugenio Beauharnais, suo figliastro.
Il Concordato quindi rafforzò il crescente potere napoleonico, ne fu saldo supporto. La Chiesa invece ricavò da esso un vantaggio solo parziale. È un giudizio comune agli storici. Citiamo l’autorevole Francois Furet: “ A questa chiesa- scrive nel ‘Dizionario critico della Rivoluzione francese’-egli (Napoleone) ha reso non già il suo patrimonio passato ai nuovi signori”- cioè ai borghesi arricchiti, veri trionfatori emersi dalle vicende rivoluzionarie- “ma la sua unità e il suo status (feriti dalle decisioni e dalle violente persecuzioni della Rivoluzione), in cambio di una subordinazione ancora più stretta che al tempo del re di Francia”, monarca assoluto prima della Rivoluzione.
Si ‘tocca con mano’ tale subordinazione scorrendo le disposizioni dell’imperatore, contenute nel suo decreto sulle ‘corporazioni’ religiose dell’8 giugno 1805.
Napoleone determina, fra l’altro, il numero di monasteri e di conventi da assegnare a ciascuna di esse e quello dei monaci o dei religiosi o dei novizi in essi ospitabile, numeri da rispettare come obblighi di legge. È fissato inoltre l’importo della pensione dei religiosi e dei loro collaboratori laici. Però due articoli del decreto perentoriamente “ aggregano al Demanio nazionale “ (si noti l’eufemismo ), cioè confiscano, i patrimoni dei monasteri e conventi soppressi in passato. La mancata restituzione di beni alla quale accenna Furet è evidente.
A Napoleone I, ad un personaggio così ambiziosamente al potere, si chiedeva, incerta, se rivolgere una supplica, Virginia Staurenghi (da religiosa Suor Marianna Florinda). Era stata abbadessa del monastero delle Agostiniane sul Sacro Monte varesino, anteriormente alla soppressione nel 1798.
Su Bonaparte perdurava tra le monache un’eco favorevole. Generale ventisettenne, nel maggio 1796 era entrato vittorioso in Milano. Nell’ottobre successivo, aveva severamente rimproverato e fatto destituire Porro, commissario di polizia milanese.
Si trovava costui in visita a Varese, eppure aveva lasciati impuniti i giovinastri della Brusca, banda di scapestrati e peggio. Quel giorno avevano provocatoriamente cantato carmi rivoluzionari ed improvvisato balli in Santuario, dopo aver commesso- con orrore vi accennavano le monache- vari atti sacrileghi. Lo testimonia Giampaolo, che li enumera.
Suor Staurenghi, dopo aver pregato e riflettuto, si decise: avrebbe scritto a Napoleone I, avrebbe aggiunta la supplica a lui indirizzata alle non poche già rivolte ai potenti in quegli anni.
Le Romite Ambrosiane le hanno conservate nel loro archivio. E, cortesemente accolta la mia richiesta, mi hanno consentito di esaminare quelle che qui, in vari modi, presento ai lettori per la prima volta.
Un grazie sentito.
Sono infatti importanti fonti dirette le lettere-supplica di Suor Marianna Florinda: documentano dal vivo il disagio sofferto per anni dalle Agostiniane, cioè da quelle rimaste lassù, nel soppresso monastero, in locali dell’antico edificio non più loro (“Casa Regia” lo chiama in talune lettere la Staurenghi), perché passato in proprietà al Regno d’Italia. Qui essa fu ‘governatrice’ delle monache –altre si allontanarono- decise a continuare la vita contemplativa del passato, per quanto possibile nelle nuove, non favorevoli condizioni.
La governatrice ci dà il quadro di una comunità tutta dedita alla preghiera, nel silenzio della clausura, in due lettere.
La prima di esse è indirizzata ad un’imprecisata Altezza Serenissima, quasi certamente identificabile nel viceré Eugenio. In due punti dello scritto, infatti, si fa riferimento al Regno d’Italia napoleonico.
“Soppresso il Monisterio del Monte sopra Varese -esordisce la governatrice- le Religiose, quelle cioè che lo vollero, delle quali viene specificato il numero- (tuttora sono in numero di venti) lungi dall’abbandonare il loro sagro asilo, di tutto fecero, e la Dio mercè (per grazia di Dio) vi riuscirono di rimanere unite nel perfetto ritiro e piena osservanza del loro Istituto”. Erano concordi cioè nella completa osservanza della clausura e della Regola agostiniana, senza peraltro dimenticare di pregare per la società civile come osserva subito dopo la governatrice.
Le religiose si rivolgevano a Dio, certo, “per il compimento dei loro voti”, o aspirazioni. Tuttavia al forse dimentico, alto destinatario della supplica, ad Eugenio, Suor Marianna Florinda rammenta che le consorelle”intente”, cioè convinte del dovere di farlo, “ implorano”, chiedono con fervore a Dio anche “ il riordinamento delle cose di questo ora avventurato regno”. Invocano infatti pace e concordia tra i sudditi di esso, specie ora che l’autorità di Eugenio rende “avventurato”, cioè fortunato il regno Italico, dopo gli anni di marasma repubblicano.
Lo scenario contemplativo ricompare nella supplica all’imperatore, ma più esteso: comprende infatti anche le Agostiniane della precedente, disciolta Comunità. “Sopra del sagro Monte di Varese, nel Dipartimento del Lario-precisa la supplicante- esisteva già un insigne Monistero di religiose Agostiniane”. La suora lo descrive con un’immagine, oserei dire, di rude bellezza ed evocatrice della loro totale dedizione a Dio, della loro “morte” al mondo: “ in quella rimota rupe di buona voglia sepolte, onde interamente dedicarsi al servizio del Signore”.
Le suore del passato sono di modello alla Comunità del momento. Pur in ben diversa e non facile situazione, anch’essa è fedele all’impegno assunto nel restare unita sul monte. “Queste stesse (religiose) tuttora viventi in edificante comunione, in numero di ventidue, sempre costanti nel primiero loro adottato sistema di un perfetto ritiro, ossia di una regolare clausura, dall’epoca fatale di loro soppressione non cessano giammai d’innalzare al Cielo supplici le loro mani”. Un’altra bella immagine corale, che richiama la suggestione di quelle del Paradiso di Dante.
La supplicante in quel momento aveva acquisito l’esperienza di oltre un trentennio di vita monastica. Nata in Brianza nel 1757, già abbadessa ed ora governatrice, avrebbe in seguito assunto la responsabilità della ripristinata Comunità, fino al 1832, anno della sua morte. Un attento profilo biografico ne hanno tracciato Massimo Lodi e Luisa Negri in “C’erano una volta…”, (Lativa, 1989), antologia di ben novantuno personaggi varesini. È l’unico ritratto della Staurenghi fin qui esistente, dopo quello datato del Borri.
Tuttavia la supplicante, nei suoi scritti, dà voce solo alla Comunità, della quale si ritiene semplice componente. Si cela umilmente in essa, non concedendo mai a se stessa nemmeno un accenno. Lo si comprende però ugualmente: era lei a guidare la comunità delle monache rimaste in clausura, ad incoraggiarle, a prendere decisioni in momenti difficili e magari nel comune smarrimento. Le confortava infine del loro stato di degradazione forzata, che comportava anche- mortificante obbligo- il vestire abiti civili.
Si comprende come il rivestire il deposto sacro abito monastico fosse desiderio profondo, manifestato in tutte le lettere, con espressioni diverse nella forma, ma pervase da sempre identica intensità di sentimento. Un atteggiamento questo che si nota anche per l’altro, sospirato desiderio, al vertice di tutti: il ripristino del monastero, per il ritorno ad una regolare vita contemplativa.
Nella supplica a Napoleone le ex monache levano al Cielo fervide preghiere “onde (affinché) un’altra volta il grande Iddio della consolazione le richiamasse al primiero loro monastico Istituto…”.
Si noti come il da tempo desiderato evento sia tutto lasciato al volere di Dio. Il pur potente imperatore al quale la supplica è indirizzata, se anche l’accogliesse, non sarebbe che uno strumento nelle mani dell’Eterno.
L’altro vivissimo desiderio è lasciato invece dalla supplicante alla decisione di Napoleone I, umilmente invocato: “ …le povere Ex Agostiniane(…) prostrate a’ piedi della Sagra Imperiale vostra Maestà, umilmente la supplicano onde voglia degnarsi d’accordare loro il grazioso indulto (il permesso concesso per grazia dall’imperatore) di vestire un’altra volta (l’abito monastico) e sollenemente (sic) professare l’agostiniano loro Istituto” e cioè far conoscere pubblicamente, nella solenne cerimonia di riapertura, il proprio monastero.
Subito dopo, il “vestire”, l’indossare l’abito monacale, viene proiettato nel futuro del ripristinato monastero, con riferimento alla vestizione delle novizie, rivalutandone la sacralità e la dignità, “ e poter successivamente accettare ed ivi (nel rinato monastero) vestire religiose altre Fanciulle, che potessero essere a quello chiamate”. L’accenno restituisce all’abito il suo valore sacrale sullo sfondo della cerimonia e vorrebbe restituirlo anche agli occhi dell’augusto destinatario.
Lesse questi la missiva di una suora lontana? Oppure essa fu cestinata da uno zelante funzionario? Non sappiamo. Certo, nessuna risposta pervenne a Suor Marianna Florinda. Nulla cambiò, quindi. Anche le condizioni economiche delle monache restarono precarie. Ciascuna di esse riceveva dallo Stato una pensione annua “tenue”, come viene definita in più lettere, esigua cioè, tale che “appena basti alla loro frugale sussistenza”.
Si doveva perdippiù pagare l’affitto dell’ex monastero e provvedere alle spese di manutenzione dei locali e ad eventuali riparazioni.
Nella prima, in ordine cronologico, delle lettere qui considerate, il disagio procurato dall’affitto viene prospettato da Suor Marianna Florinda a Francesco Melzi d’Eril, vicepresidente della Repubblica Italiana, subentrata nel 1802 alla Cisalpina. Nella sua stima, Napoleone accomunava Melzi-lo si è accennato- a Vincenzo Dandolo. Pertanto lo incaricò della Vicepresidenza.
Si interessò presto alle ex religiose del Sacro Monte il neonominato. Nell’ottobre di quell’anno (lo ricorda l’esordio della lettera), con un decreto, assicurò “alle povere Ex Monache(…)il perpetuo uso di quel locale (dell’ex monastero).
Purtroppo però, qualche tempo prima della stesura della lettera, (reca la data del 20 agosto 1803) ancora Melzi le obbligava al pagamento di un affitto annuo e delle spese di manutenzione, ponendo così “le meschine”(…) in istato di lagrimevole crisi”.
Suor Marianna Florinda, subito spiega le cause di tale sconforto. “La situazione montuosa, cioè la dimora posta a sommità del Sacro Monte, richiedendo gravosissimi dispendi pel trasporto del personale mantenimento, fa sì che la pensione” sia, come già rilevato, appena sufficiente alla sussistenza. “ Un novello peso d’annuo fitto o riparazioni del locale-prosegue la governatrice-toglierebbe alle medesime (Religiose) una porzione di mezzi troppo necessari al loro cibo”.
Altre spese sono causate dall’aver aperto all’interno dell’ex monastero una “non ordinaria Spezieria”, cioè un’erboristeria non prevista dalle Regole né dal tradizionale stile di vita delle Agostiniane. Su di essa si dirà tra poco, la conclusione della Staurenghi rivela tristezza e preoccupazione quali non si notano in alcun altro testo.
“Aggravati già dai suddetti ed altri molteplici pesi -essa lamenta- le povere ex Monache di Santa Maria Monte non potrebbero sicuramente soccombere(sobbarcarsi)ad altri, senza trovarsi esposte a dover da colà sloggiare, nel quale durissimo caso la maggior parte di Esse, prive di Parenti, e già ridotte ad età cadente, troverebbensi isolate, prive d’ogni soccorso che l’una all’altra attualmente prestonsi (si prestano) ed esposte quindi a dover morire miseramente”.
Non poco turbamento in Comunità-è comprensibile-era stato provocato dalla recente disposizione di Melzi. Se ne fa eco Suor Marianna Florinda fino a trarne conseguenze pessimistiche, estreme, anche se averle manifestate al Vicepresidente è già in qualche modo un superamento.
Ma “il grande Iddio delle Consolazioni” -è definizione della supplica all’Imperatore- esaudì le preghiere che pur in quei momenti di angoscia non cessavano le religiose di elevargli.
Una nota posteriore, aggiunta alla lettera, informa infatti che l’ansiosa richiesta fu accolta da Melzi. Senz’altro fu ben impressionato dalla firma apposta alla supplica da due municipali: la municipalità varesina appoggiava dunque le ex monache! “ La Repubblica –recita la nota- condona due terzi dell’affitto ed agevola le spese di riparazione”: per la prima volta, per quell’anno almeno, l’animo sarebbe quasi del tutto sgombro da questa preoccupazione.
Poi, però, essa si sarebbe rinnovata…
Accanto a quella dei municipali, in calce alla lettera figura la firma di don Giuseppe Bellasio, parroco e rettore del santuario. Nel gennaio 1802, infatti, era stata abolita la vicarìa del monastero, eretto per la prima volta in parrocchia. Ebbe come parroco don Bellasio, con il titolo di rettore e con l’incarico di confessore delle suore. Durante la soppressione, quindi, esse poterono praticare il sacramento della confessione e ricavarne sollievo spirituale.
La lettera a Melzi, in definitiva, è segno di un secondo gesto di collaborazione tra autorità civili e religiose, a beneficio delle monache del Sacro Monte. Si può affiancare alla collaborazione attuata nel 1804 ad incrementare, questa volta, la diffusione del vaccino vaiolo di Sacco (si veda il secondo capitolo).
Nella supplica all’imperatore, a proposito dell’erboristeria, si dice che attendono “ frattanto le meschine alla pubblica beneficenza mediante una non ordinaria Spezieria, che con grave sacrificio di fatiche e di lavoro tengono aperta a soglievo degli infermi (delle) valli vicine”, gratuitamente.
Qualche provento semmai poteva venire dalla generosità di taluno dei visitatori: la lettera al Vicepresidente Melzi, infatti, tempera la gratuità delle prestazioni con un “il più delle volte”.
Non è però quanto Suor Staurenghi vuol far risaltare. La motivazione vera, sottesa ai riferimenti alla “Spezieria”, ci sembra un’altra. Essa è una tacita sfida, più o meno consapevole: anche le contemplative sanno essere socialmente utili. La sfida contrasta con l’affermazione di quanti sostenevano l’inutilità sociale dei monasteri, a pretesto o giustificazione della loro soppressione.
Si comunica perciò con fierezza al vicepresidente Melzi: “ Tutte le vicine popolazioni ne sono testimoni, Cittadino Presidente, quanto già quelle ex Monache cooperino(…) al bene della Società”. Con l’attendere all’erboristeria ed anche, ne informa Napoleone la supplica “ con la pulitezza de’ sagri arredi (della) Parrocchial Chiesa” (del Santuario, divenuto parrocchia nel 1802, come si è detto).
Si intende affermare in definitiva, tra le righe, che le contemplative hanno seguito la propria vocazione non per inabilità ad un qualunque lavoro, ma per la certa convinzione di poter meglio giovare agli altri nella preghiera.
“Si può dire con verità una seconda Fondatrice”: è l’elogio della Staurenghi che il Diario della Comunità o Chronicon ha custodito fin qui e ben a ragione.
Le lettere provano che poco o nulla la suora si aspettava, pur supplicante, dal rivolgersi ai potenti. Del resto, crollato Napoleone nel 1815 e tornati gli austriaci, il monastero fu ripristinato solo sette anni dopo.
Suor Marianna Florinda però non aveva voluto lasciare nulla di intentato, pur di raggiungere il ripristino del monastero e concorrere al bene delle Consorelle.
I suoi scritti comunque erano e restano un’edificante testimonianza.
Intendono tener viva in monache messe al bando, provate in mille modi, impegnate nella controtendenza, la fiamma della vocazione, la sollecitazione a proseguire unite nel loro proposito.
Con l’incoraggiamento e con l’esempio, della loro abbadessa o governatrice, sempre però subordinati all’adesione alla volontà di Dio che pervade ogni lettera, dando compenso e significato ad inutili tentativi, a vane attese.
Il Comune di Varese ha intitolato una via cittadina, assai frequentata, a Suor Staurenghi.
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