Il termine bioetica si affaccia nel 1970 con l’oncologo americano Poter Van Rensselaer al fine di integrare le conoscenze biologiche con i valori del sapere umanistico tradizionale; lo scopo quello di sensibilizzare l’umanità di fronte ai rischi della crescita demografica, dell’inquinamento ambientale, dello sfruttamento indiscriminato delle risorse energetiche.
Negli anni Settanta e Ottanta si denunciano numerosi casi di sperimentazione umana contrari all’etica dettata dal Codice di Norimberga e dalla Dichiarazione di Ginevra del 1948. Nel giugno del 1978 compare e viene diffuso il Rapporto Belmont inerente ai principi del rispetto per le persone e per l’autonomia delle loro scelte morali, ai benefici apportati dalla ricerca biomedica e alla giustizia della loro distribuzione sociale con relativi inconvenienti.
Non vengono ritenuti bastanti principi basati soltanto su norme dettate dai codici deontologici ad assicurare il rispetto dei diritti individuali. Per molti filosofi, teologi e giuristi si ritiene legittimo che i medici vantino competenza sui fatti della scienza medica, ma viene loro negata competenza quando si tratti dei principi e dei valori che devono guidare ed orientare le scelte di carattere etico. Ogni tentativo di trascendere questi limiti deve essere interpretato come paternalistico. Di qui la necessità del consenso informato e del rifiuto di un trattamento terapeutico, quando il paziente ritenga violato il proprio sistema di valori.
Obiezione: se obbligo primo del medico è quello di guarire il malato o di mantenere la persona in salute, la priorità d’accordare autonomia al paziente costringerebbe il medico a violare i propri doveri. C’è poi da considerare l’interesse collettivo, l’importanza delle convenzioni sociali, per non parlare delle scelte politiche ed economiche più efficaci in relazione alle risorse, all’aumento dei costi della spesa pubblica.
A partire dalla metà degli anni Ottanta negli ospedali e nelle scuole di medicina la bioetica si articola in un sistema di procedure decisionali astratte, intese a fornire risposte semplici e soluzioni veloci ai numerosi problemi morali, che si presentano (etica preconfezionata).
In reazione al prevalere di un’accezione formalistica e procedurale alcuni fondatori della disciplina recuperano l’originaria ispirazione globalistica in relazione all’etica ambientale (sviluppo demografico, degrado ecologico, rapporto uomo-altri esseri viventi – vedi la seconda edizione della Encyclopedia of Bioethics, 1995); per l’altro verso ogni paziente deve essere considerato come un individuo unico e complesso (biografia, esperienze, credenze, valori e intenzioni).
Dalla fine degli anni Ottanta accanto all’applicazione di questioni di principio si propongono i metodi empirici dell’indagine sociologica e particolarmente dell’epidemiologia clinica. Nel corso degli anni Novanta infine ci si concentra sull’applicazione delle tecnologie genetiche e cellulari.
Tecniche di diagnosi molecolare prenatale, di fecondazione in vitro, di trasferimento del nucleo cellulare (clonazione) fanno riflettere sui valori etici e i diritti in gioco nelle scelte riproduttive, sulla prospettiva di utilizzare gli embrioni umani per scopi di ricerca e per la messa a punto di nuove terapie nel caso di malattie degenerative. Controversie riguardano gli studi sul cervello e le nuove conoscenze e teorie neuroscientifiche, da cui la possibilità di diagnosticare anomalie neurologiche associate a comportamenti socialmente devianti. S’apre così spazio alla neuroetica.
Certo le biotecnologie, lo sviluppo delle tecniche mediche e farmaceutiche mettono in discussione convinzioni, abitudini e idee di durata millenaria, evidenze ritenute incrollabili, l’autorità in alcuni casi della rivelazione divina ; inducono a riformulare la nozione di identità personale, diritti di singoli e famiglie, cicli vitali, mutano il sistema dei sentimenti, che regolano tutti i momenti più solenni dell’esistenza umana. Si modifica persino la configurazione dell’immaginario. Ecco madri in menopausa, genitori di figli sconosciuti, perché nati da una donna cui è stato donato il seme, da un utero in affitto, da una vedova a distanza di anni dalla morte del marito.
Ecco la manipolazione delle cellule staminali, con la conseguenza che i trapianti potrebbero rivelarsi inutili; ci si dota di organi che non sono quelli di appartenenza; mediante la biologia molecolare sui cromosomi del nucleo della cellula e sui loro costituenti elementari (le molecole del DNA) la materia diviene trasferibile; l’avvento delle tecniche di fertilizzazione disaggrega procreazione e figura parentale.
Tutto quello che era legato alle dure leggi della necessità ora è oggetto di scelta. Quello che si affidava alle fedi e alla coscienza individuale ora è commesso ai singoli con responsabilità inedite e gravose. Nel caso dell’eutanasia si pone il problema della liceità o meno del testamento biologico.
Alla concezione della sacralità della vita si contrappone l’etica laica dell’etsi deus non daretur. Per Hans Jonas non si dovrebbe comunque toccare la linea germinale, trattandosi di un patrimonio che appartiene non solo all’individuo, ma anche ai suoi discendenti. Si accresce il divario tra possibilità di innovazione e recettività a livello sociale.
Per quanto attiene alla famiglia risulta incrinata quella basata sui vincoli di sangue, prevalgono i legami elettivi rispetto a quelli ascrittivi (la si chiama famiglia artificiale), in cui per i bambini si possono verificare conseguenze psicologiche gravi. È messa in discussione la figura paterna. La natura in conclusione ha cessato di rappresentare un metro e un modello.
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