Il carattere dello scrittore luinese e varesino Piero Chiara, considerato da molti uno dei più grandi narratori del secondo dopoguerra italiano, non fu quello del romanzo, anche se “romanzi” sono chiamati tuttora diversi suoi lavori – a cominciare dal Piatto piange (1962) a Saluti notturni dal Passo della Cisa (1987), pubblicato postumo e non del tutto compiuto –, ma il racconto. Perché anche i suoi romanzi paiono essere sempre “racconti lunghi”, e non romanzi, almeno secondo l’accezione compresa del romanzo del XIX secolo, che è spesso saga e lunga storia che si avvicenda con colpi di scena anche drammatici.
E proprio nei “romanzi” Piero Chiara dà esempio di quella che è la sua principale indole di raccontatore: la traccia e l’indicazione di luoghi a noi spesso vicini, di piccoli eventi, di storie di paese talora velate dal mistero, di episodi, aneddoti autobiografici o tali fatti credere e diventare e la descrizione ritrattistica di personaggi, mai priva di un certo sense of humour.
Lo stile, invece, è sempre lo stesso: un italiano bello e fluente (ma frutto anche di una cura continua di ricerca e di riscrittura), di un nitore sintattico che è nella linea della nostra grande tradizione e che comincia dal Boccaccio per arrivare al Manzoni. Piero Chiara, non a caso, diceva che ogni anno riprendeva nelle mani i Promessi sposi del Don Lisànder e lo rileggeva, come per trarne emozioni, spunti e forse anche cenni di ispirazione.
Dei racconti, di cui ogni tanto riappare qualche inedito dalla profondità e dalle segrete di suoi cassetti (Piero Chiara morì a Varese nelle ultime ore dell’anno 1986 a cavallo del 1987 all’età di settantatré anni e mezzo: tra un paio di settimane saranno trent’anni esatti), così a mo’ di esempio, prendiamo un brano famoso del primo di L’uovo al cianuro e altre storie, in cui Chiara raccolse suoi scritti dal 1963 al 1969, poi pubblicati da quello che fu sempre il suo editore di riferimento: Mondadori. Il racconto si intitola Sulle onde del Lago Maggiore. Piero, che ha frequentato la prima ginnasiale al Collegio De Filippi di Arona, ha saputo – saputo così per dire – che è stato bocciato, e adesso è in attesa del battello sul quale naviga il papà Eugenio, venuto da Luino per riportarlo a casa.
E l’immagine è straordinaria, fantastica e verista, il ricordo è fervido: “…Dal centro del lago un battello bianco veniva avanti impercettibilmente. Lo vedevo poco più grande di un insetto e pensavo che a bordo ci doveva essere mio padre… Avrebbe scoperto che di suo figlio poteva fare tutt’al più un operaio. Nemmeno un impiegato come lui, ma un giornaliero, un manovale, forse un barbiere… Il battello, che era di quelli a nafta, piccoli e malsicuri, diventato tre o quattro volte più grande, mi apparve stracarico e un po’ ingavonato di prua. Quando virò per l’accostata che doveva portarlo a ridosso dell’imbarcadero, lo vidi inclinarsi da un lato e per un attimo sperai che si capovolgesse. Una disgrazia, di quelle che capitano ogni cent’anni, poteva determinarsi quel pomeriggio, nella bonaccia del lago, per qualche falsa manovra. Invece il natante si raddrizzò…”. Solo chi ha provato l’esperienza di una “brutta” comunicazione in famiglia o al papà come quella di un insuccesso scolastico e di una bocciatura, che forse era una bocciatura della vita, può capire e provare anche commozione dinanzi agli inconsci desideri di Piero, studente ginnasiale mancato.
Ma non c’è solo un Piero Chiara narratore – la sua fama, grazie ai buoni uffici dell’amico Vittorio Sereni, della stessa età, luinese compagno di banco delle elementari, cominciò a diffondersi agli inizi degli anni Sessanta – , c’è anche un Piero Chiara poeta. Meno noto, forse, ma tutt’altro che banale e meno interessante. La sua esperienza “pubblica” di poeta risale a una ventina di anni prima, al 1945 – Piero aveva poco più di trent’anni –, quando per le edizioni di Poschiavo diede alle stampe un libriccino intitolato Incantavi, che è il nome di una località, di alcuni cascinali che stanno su un colle di sopra Luino. Il libretto è dedicato a Jula – Jula Scherb – una donna svizzera tedesca che egli aveva sposato giovanissino, e che gli diede il suo unico figlio Marco, con la quale cercava forse di riallacciare un solido rapporto.
Della natura “prosaica” e descrittiva, che dunque muove dalla lirica, delle poesie di Chiara, hanno già discusso diversi critici. Ci limitiamo qui a riprendere la poesia che dà titolo al libretto: Incantavi. “Agl’Incantavi il sole / sul molle clivo / e la facciata bianca / del fulvo autunno / alza i bagliori. / Deviano i venti crudi / al suo dorsale, / e rimarrà nel verno / mite d’aria / e di colori”.
E dalla poesia alla prosa, a un brano del Piatto piange – il primo “romanzo” di Piero Chiara – nel momento in cui un gruppo di giovinastri, all’alba, dopo una notte di gioco sfrenato, si devono precipitare al cascinale della Maiadora, di poco distante dagli Incantavi. E poi si… distendono al bisogno.
Non c’è qui la delicatezza della poesia, ma solo e unicamente prosa? Chi lo può dire per davvero: “Ma tì, ma tì, guarda che l’è pur anca bel a fa sta vita! Giùgum, màgnum, un quai danèe che l’èmm semper, lavùrum pok o nagòtt, quant ghè da cudegà cudégum, pàsum l’inverno al kalt, d’està ‘ndemm a nodà. E adess semm chì a vardà ‘l laag cun la bel’arièta fresca in sui ciapp!”.
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