Toh, questa è bella! Adesso scopriamo, meglio: ci fanno scoprire, stando a una classifica redatta dal giornale Italia Oggi e dall’università “La Sapienza” di Roma, che quella di Varese è una città e una provincia (abbastanza) ricca, cioè che da questo punto di vista vi si può ancora vivere bene. Si entra e si esce dalle banche, diceva lo scrittore luinese-varesino Piero Chiara, non importa perché, bisogna solo farsi vedere mentre si entra e si esce.
Ma dal punto di vista del tempo libero e del turismo frequentiamo i posti bassi della classifica. Le librerie chiudono, le strutture alberghiere sono inadeguate, ristoranti bar e caffetterie ci fanno vivacchiare ma non primeggiare.
È interessante chiedersi il perché. Una nota breve sul tempo libero: si sa, secondo un assioma da sempre sperimentabile, che il vero denaro guadagnato sta in proporzione diretta al tempo libero che si ha poi a disposizione per spenderlo. Altrimenti si è solo dei produttori di denaro a oltranza. E a Varese tempo libero ce n’è sempre stato poco, si lavora e stop. La cultura, qui, non sembra essere quella dei libri, del teatro, dell’arte ma del lavoro. La scelta, crediamo, fu fatta qualche secolo indietro. Quindi, non vi sarebbe tanto da lamentarsi, perché a una cosa s’è privilegiata l’altra: l’avere all’essere.
Il turismo. “La questione non è nuova”, così cominciava un suo articolo il direttore e fondatore della Prealpina, Giovanni Bagaini, nel primo numero del giornale: l’8 dicembre del 1888, vale a dire centoventotto anni fa. Tanto per essere ancora più chiari e precisi: in Italia, a quell’epoca, c’era la monarchia, il re era Umberto I e il presidente del consiglio era Francesco Crispi.
La questione non era nuova allora, ma a quanto pare – almeno da noi, in città e nella provincia – non lo è nemmeno oggi. E passi in avanti – questo è l’aspetto più importante e sconcertante della vicenda – non ne sono stati fatti. Nonostante si dica che Varese e il suo territorio siano tra gli unici al mondo nel possedere più luoghi e monumenti “patrimonio dell’Umanità”.
Ma anche quella del turismo è una scelta. Altre volte, per esempio, parlando della sponda grassa del Lago Maggiore, quella piemontese, e della sponda magra, la nostra, s’è fatto cenno a come dalla parte di là (non dimenticando forse una situazione logistico-geografica migliore) si preferisse puntare di più sul turismo. Sempre di più. Si pensi ai due grand hotel di Stresa (il “des Iles Borromees” e il Regina Palace), tutt’oggi in auge, e al nostro Grand Hotel Campo dei Fiori, realizzato da un maestro del liberty, l’architetto Giuseppe Sommaruga. Il nostro in irrimediabile disuso da decenni sembra il sito ideale per realizzare un remake del film di Kubrick Shining. Qui, però, qualche albergo a parte, si privilegiava la realizzazione degli insediamenti industriali, il lavoro e non il tempo libero.
Ma forse, più probabilmente, la scelta di Varese “contro” il turismo e non “suo favore”, ha ancora altre origini. Il fatto di essere passati, qui, con un certo anticipo sugli altri, dalla civiltà contadina a quella industriale e del lavoro ha minato senza possibilità di ritorni l’antica cultura dell’ospitalità. E nonostante gli annunci di “vocazioni turistiche” ci si è mantenuti su questa strada, dove anche alla vocazione turistica e dell’ospitalità, prevale quella del lavoro e del guadagno.
Nulla di grave? Chi lo sa. Varese elimina le librerie e apre negozi di biancheria intima, che la si può ammirare solo nel chiuso di una stanzetta. I parchi, i giardini stupendi sono più privati che pubblici. Se passi sotto i portici, anche se sei un marziano atterrato da qualche settimana, nessuno ti degna di uno sguardo, come nel famoso apologo di Ennio Flaiano. Alle sette e mezzo di sera, anzi, alle sette e ventotto minuti, giù le saracinesche e tutti a casa. I ragazzi che vorrebbero mettere in azione la “movida” qualcuno li prenderebbe a fucilate. E anche la movida, quando c’è, non è un’esigenza culturale o esistenziale, ma un’occasione per vendere qualche bevanda in più e per fare un po’ di casino.
Varese, verrebbe da dire, è una “città del silenzio”. Eppure ce ne sono altre e di più importanti e affascinanti, dov’è nata la civiltà in Italia: Pisa, Lucca, Perugia, Padova, Orvieto, Bergamo, Rimini, Gubbio, Ferrara… Ce le ha ricordate tutte Gabriele D’Annunzio. Chi sa perché Varese se l’è dimenticata. Possibile che non ne avesse mai sentito parlare.
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