Elezioni europee, 25 maggio 2014: 57,22 per cento degli elettori alle urne; 48,81 per cento dei voti al Pd di Matteo Renzi. Referendum, 4 dicembre 2016: 68,48 per cento degli elettori alle urne; 60 per cento di “no” alla riforma voluta da Matteo Renzi. Il raffronto tra questi dati – relativi a votazioni in teoria assai diverse tra loro ma entrambe inconsultamente trasformate da Renzi in un voto pro o contro di lui – dà la misura della quantità di consenso che nell’arco di soli due anni e mezzo il “rottamatore” ha perso.
Ciononostante buona parte degli elettori, i più capaci di guardare malgrado tutto al quesito referendario al di là di tale strumentalizzazione, ha votato guardando in primo luogo alla sostanza della questione, che andava anche ben oltre la sorte del governo. In questa prospettiva merita la massima attenzione anche il fatto in sé. Il fatto insomma che ad ogni modo la riforma costituzionale Renzi-Boschi è stata respinta dal 60 per cento di coloro che si sono recati alle urne.
Occorre perciò che la riflessione sull’accaduto tenga conto di entrambi questi fattori, che tuttavia pur essendo diversi s’intrecciano. Non senza notare preliminarmente che i dati sull’affluenza dimostrano che nel nostro Paese quando la posta in gioco è chiara e importante la gente va a votare. Veniamo ora al primo dei due fattori di cui si diceva, ossia alla caduta di consenso nei confronti di Renzi, di cui egli per primo ha preso atto annunciando le proprie dimissioni già nella notte scorsa. E’ un dato reale che però va incrociato con un altro, altrettanto decisivo in un sistema democratico. Nel nostro Paese il capo del governo viene eletto dal Parlamento, e resta legittimamente in carica finché la maggioranza che lo ha eletto lo sostiene. C’è pertanto, e non a caso, una pretesa autoritaria in forze politiche che, essendosi schierate a favore del “no”, adesso se ne vogliono appropriare in via esclusiva, ovvero il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord di Matteo Salvini. Sul carattere evidentemente proto-fascista del Movimento 5 Stelle non torniamo, avendone già scritto in varie occasioni. Il suo programma e il linguaggio del suo fondatore hanno, dicevamo, preoccupanti punti di contatto con la prima fase del fascismo (quello detto “sansepolcrista” dal nome della piazza di Milano ove aveva la sua prima sede). Per una valutazione sulla cultura e sul disegno politico di Matteo Salvini basta andarsi a rivedere la video-registrazione, facilmente accessibile sia in Tv che in Internet, della sua conferenza stampa nella notte del voto.
Fino a quando e se sussiste in Parlamento la maggioranza che portò Renzi a palazzo Chigi, Renzi o chi per lui ci deve restare. Di ciò dobbiamo attenderci che il presidente della Repubblica tenga ben conto. Lo schieramento per il “no” era per così dire un «arco costituzionale», e non una possibile maggioranza politica alternativa. Alla vittoria del “no” hanno dato inoltre un contributo di primo piano forze della società civile – si pensi ad esempio al Comitato famiglie per il “no” di Massimo Gandolfini – ben presenti anche se ostinatamente ignorate dall’ordine costituito dei grandi media.
Una maggioranza politica democratica alternativa a quella di centro-sinistra è tutta da costruire, e purtroppo al momento non è ancora all’orizzonte. La si può fare, anche con volti nuovi, ma per il momento non c’è. Una nuova maggioranza che fosse dominata da forze come quelle di cui si diceva indurrebbe molto presto a concludere che si stava meglio quando si stava peggio. Perciò ci si deve augurare che l’attuale maggioranza in Parlamento duri ancora un po’.
Venendo al secondo dei fattori di cui si diceva, ossia a quello sostanziale, va sottolineato che il progetto neo-centralista e anti-sussidiario, che caratterizzava la riforma Renzi-Boschi, è stato chiaramente respinto. Chi, come noi, l’aveva denunciato da subito, condensando le ragioni del “no” in un libro-dossier già pubblicato senza caute equidistanze nello scorso settembre, non può che compiacersene. Non per questo ci sfugge l’urgenza di una riforma della Costituzione, che tuttavia va fatta in ben altro modo. E pure noi in tale libro-dossier, che in questo senso è ancora attuale, abbiamo scritto qualcosa in proposito.
Qualche osservazione, prima di concludere, sulla geografia dell’esito del referendum, che ha visto il “sì” prevalere, oltre che fra gli italiani all’estero, soltanto nell’Emilia-Romagna, in Toscana e nell’Alto Adige/SűdTirol. Le prime due sono le storiche regioni “rosse” del vecchio Partito Comunista Italiano, di cui evidentemente il Pd di Matteo Renzi è più erede di quanto voglia far credere. Più sorprendente è invece l’esito del voto dell’ Alto Adige/SűdTirol così compattamente per il “sì” da annullare a livello regionale l’effetto della vittoria del “no” nel Trentino. Sulla decisione della Sűdtiroler Volkspartei, SVP, e dei piccoli partiti italofoni suoi alleati, di appoggiare Renzi ha evidentemente pesato la promessa del governo di non rimettere in discussione lo status particolare della Provincia Autonoma di Bolzano (Alto Adige/SűdTirol), di fatto anche più esteso di quello della Provincia Autonoma di Trento (Trentino). E’ come dire: “Purché non modifichiate il nostro status quo fate pure quel che volete”: un sintomo, di cui ci si deve dispiacere, della persistente estraneità di quel territorio dalla vita del Paese. Continua insomma a restare un problema quello che potrebbe essere una risorsa: la presenza entro i confini della Repubblica italiana di una terra di cultura prevalentemente germanica che potrebbe fare da utile ponte tra l’Italia e il mondo di lingua tedesca.
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