Giancarlo Caselli è a Varese sabato 26 novembre, invitato dal Centro Gulliver per i festeggiamenti del 30° anno di funzionamento dell’associazione.
Affronta il tema delle regole e dell’importanza di riconoscerle e praticarle per ripristinare legalità e giustizia. Argomenti già largamente affrontati nelle scuole e nella società, che rischiano di scivolare nel novero delle belle lezioni teoriche, considerato che le regole del vivere civile siamo noi adulti i primi a disconoscerle, fornendo spesso esempi contraddittori alle nuove generazioni.
Caselli, classe 1939, i titoli per proporsi come un esempio di coerenza umana e professionale invece li ha proprio tutti. Non si atteggia a eroe né a censore, eppure potrebbe, da uomo sotto scorta dal 1974: le sue prime frasi sono di ringraziamento, alla famiglia che lo ha sostenuto e agli uomini che gli hanno garantito l’incolumità e che oggi sono parte della sua vita quotidiana.
La sua concezione di rispetto delle regole ce la spiega con serena lucidità. Negli anni di Palermo e anche dopo, ha conosciuto la mafia da vicino, si è imbattuto nelle SUE regole, esattamente opposte a quelle su cui si fondano la democrazia e i diritti riconosciuti dalla Costituzione, e ha deciso di spendersi per combatterle.
L’esistenza di regole condivise e applicate dà a tutti noi la speranza di avere prospettive e garantisce la sopravvivenza di un futuro.
Perché qualcosa toccherà pur dire ai giovani a cui il mancato rispetto delle regole sta scippando le migliori opportunità.
Perché ci spetta il compito di convincerli che le nostre promesse non sono una partita truccata in partenza, come sembrerebbe.
Perché abbiamo il dovere di rassicurarli sulla bontà e la veridicità dei valori su cui si fonda la nostra convivenza.
Discorso ancor più difficile al Sud dove “lo stato dentro lo Stato”, costituito dalla mafia e dalle altre forme di criminalità organizzata, mostra il volto benevolo di chi aiuta, raccomanda, sostiene, arricchisce.
Stando ai dati dell’Istat la mafia fattura utili per 150 miliardi di Euro che, uniti ai 60 miliardi generati dalla corruzione e ai 335, sempre miliardi, dell’evasione fiscale, danno vita a un patrimonio che potrebbe essere trasformato in servizi indispensabili alla società: scuole, ospedali, centri di aggregazione, lavoro.
Dobbiamo imparare ad affermare che la legalità è più conveniente, oltre che più giusta, dell’illegalità; che dalla riprovevole situazione di vantaggio riservata ai corrotti, troppi, tanti, ma in numero percentualmente limitato, si potrebbe passare alla pratica della legalità che dà risposte concrete ai bisogni di ogni cittadino.
Dal pubblico qualcuno chiede da dove sono generate libertà e giustizia: dal Vangelo o dalla Costituzione? Sottintendendo che vorrebbero sapere da lui, credente e praticante, se l’uomo che sceglie la legalità obbedisce alla legge di Dio o a quella dell’uomo.
Caselli cita coloro che hanno “fame e sete di giustizia”, uomini capaci di unire “cielo e terra”: perché ad avere fame e sete dei diritti fondamentali dell’uomo sono i giusti di ieri e quelli di oggi, che si incontrano in piena libertà: il Vangelo costituisce un punto di riferimento per i credenti, e un punto di partenza storicamente riconosciuto per i laici. Quelli di Caselli sono don Ciotti di Libera e don Tonino Bella, per citarne solo due, ma anche i ragazzi che assistono per interminabili ore ai processi contro i mafiosi, sfidando gli sguardi minacciosi dei parenti dei detenuti. Un pensiero particolare lo dedica al Generale Dalla Chiesa, che definisce “sbirro” nel senso buono del termine, un servitore della legge e delle sue regole. Il suo testamento spirituale resta inciso nelle righe dell’articolo di Giorgio Bocca che lo intervistò pochi giorni prima di quel sanguinoso 3 settembre del 1982. Dalla Chiesa dichiarò che non con le manette ma con le risposte ai bisogni della gente si doveva combattere la mafia. L’Antimafia sarebbe nata subito dopo la morte del Generale.
In chiusura Caselli ci chiede un forte impegno nell’ <antimafia sociale> che significa legalità sempre e ovunque, presenza costante nelle scuole, nelle Tv, nei luoghi di lavoro, nelle parrocchie, l’unico vero antidoto all’indifferenza e alla rassegnazione; ci invita alla pratica della verità sopra ogni cosa, come ha scritto nell’ultimo libro “Nient’altro che la verità” che vede un intero capitolo, l’ultimo, dedicato a don Milani.
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