Il nuovo millennio pone l’umanità di fronte a complessi e assillanti problemi globali circa il futuro: l’ambiente; il lavoro; l’equità sociale; i bisogni; lo sviluppo economico; il ruolo delle tecnoscienze; il conseguimento di una pace stabile; la felicità individuale, e via elencando.
Non c’è sapere scientifico, convinzione filosofica o credo religioso che non siano interrogati da questi temi. «Quali sono le condizioni date? In che misura ne sono investito come membro di una comunità politica e civile e come singolo individuo? Cosa dobbiamo sapere? Cosa possiamo auspicare? Cosa possiamo fare? Quali regole conviene adottare?».
L’ottica con cui esaminiamo le cose orienta la scelta delle soluzioni. Semplificarle o complicarle troppo non è né lecito né utile. Anche i nostri stili di vita ne sono investiti. Siamo tutti chiamati a reinterpretare in chiave individuale i problemi comuni che incontriamo nell’esperienza esistenziale. Ma la riflessione si può esercitare solo se le condizioni della sfera emotiva predispongono al distacco, alla misura, alla ponderazione e alla cautela. Pregiudizi, allarmismo eccessivo e ottimismo facilone non consentono condizioni cognitive ottimali.
La triplice questione dei migranti, dei profughi e dei richiedenti asilo è uno di questi grandi problemi. Non siamo in grado di incidere sui fenomeni in corso. I movimenti di persone costrette a lasciare i propri territori d’origine a causa di guerre, persecuzioni, discriminazioni, crisi ambientali, miseria o semplicemente l’assenza di opportunità di vita hanno assunto dimensioni rilevanti.
Non preoccupano tanto i valori numerici – 65 milioni di profughi e richiedenti asilo e percentuali poco sotto l’1% della popolazione mondiale –, quanto il fatto che non vi siano al momento rimedi efficaci che possano fermare questi movimenti a breve e a medio termine, sia in entrata che soprattutto in uscita.
Dobbiamo convivere con un’emergenza che forse possiamo stemperare ma non certo scongiurare. Non vi sono né coercizioni né controlli atti a prevenire, fermare, contenere o dissuadere questi flussi. Ormai è possibile limitare gli spostamenti definitivi di centinaia di migliaia di persone solo dove sussistono a priori barriere geofisiche non ancora valicabili: l’ampiezza dei mari e degli oceani, le grandi distanze via terra. Asia e Africa formano un tutt’uno con l’Europa. Le Americhe sono unite tra loro. Solo l’Oceania può dirsi al riparo.
Prima che Stati Uniti, Gran Bretagna ed Europa, fidando a torto sulla forza militare, decidessero di intervenire con guerre controproducenti nell’area che dalla Libia si estende fino al Pakistan, i flussi erano minori, meno estesi e sorretti da un progetto migratorio individuale, non importa se vago, confuso e indeterminato. I poli di attrazione erano più potenti della forze espulsive e centrifughe. L’accoglienza era possibile non solo perché economicamente sostenibile, ma perché conveniente per far fronte a una serie di bisogni produttivi e assistenziali privati e agli effetti di sbilanciamento del sistema del welfare prodotti dal calo demografico. Ora le forze espulsive sono incoercibili anche se mancano di una destinazione e di un progetto che non stiano scritti in un disperato libro dei sogni: «Intanto scappiamo, poi si vedrà».
Un simile esodo epocale non lascia possibilità di scelta. L’alternativa non è tra accoglienza o respingimento. Nessuno può lasciar morire chi si avventura alla cieca per mare o per vie terrestri ardue e rischiose. I diritti umani non possono essere calpestati, pena il precipizio verso la barbarie, la conflittualità, il totalitarismo. Dobbiamo offrire umana solidarietà a chi chiede ormai soltanto di sopravvivere in libertà. Ma nemmeno possiamo non dare risposta a quelle fasce di popolazione nei paesi d’arrivo che si sentono insicure.
Le risorse si stanno riducendo, e non solo per la persistente stagnazione economica. Non è immediato convincere milioni di persone che la loro percezione di allarme è ingigantita dalla mancanza di informazioni adeguate. L’Europa intera ospita meno profughi di quanti non ne ospiti da solo il piccolo Libano. Ma pochissimi lo sanno, e moltissimi gridano all’«invasione», come se gli unni fossero ormai alle porte di Roma.
La risposta convincente non verrà da una migliore informazione. Voci nel deserto possono fare poco con chi non vuole o non sa ascoltare. Questo compito spetta alle buone pratiche delle istituzioni. I testimoni di solidarietà e gli operatori dell’informazione possono fare qualcosa solo se gli stati, le regioni, gli enti locali d’Europa armonizzano il loro impegno per governare questi fenomeni, fin da subito nei luoghi di arrivo e a medio termine là dove si generano. È questo che manca.
Se non c’è un’autorità democratica, coesa e credibile che governi insieme con i cittadini questi fenomeni, inevitabilmente nascono le paure e chi specula su di esse prospera, e però crea solo disastri peggiori, perché instilla la persuasione che la risposta consista nel chiudere una frontiera, elevare un muro, cingere di filo spinato, respingere, rispedire a casa o dirottare altrove, come pretende il modello nazional-populista ungherese.
L’Europa sta abdicando. Le migrazioni mettono a rischio la sua incolumità politica. Il miglior artefatto che in millenni di storia abbiamo costruito potrebbe andare in frantumi, un pezzo dopo l’altro. Ma rimuovere gli egoismi nazionali riattizzati dalle destre radicali non sarà facile.
Occorre come sempre frequentare la scuola dell’esperienza, e trovare risposte che possano valere da modello positivo. Lampedusa è un buon esempio. Calais è un pessimo esempio. Nel primo caso l’autorità locale ha coinvolto i cittadini, e continua a far fronte a un’emergenza che è ormai consuetudine, poiché non ha mai fine. Nel secondo ogni autorità si è eclissata, i cittadini sono stati lasciati soli con la loro buona volontà o con le loro paure, fino a che il tumore trascurato non è stato asportato a forza di ruspe, salvo rispuntare altrove con nuove metastasi.
La Svizzera – strano a dirsi, per chi coltiva pregiudizi – ha sperimentato nell’ultimo anno un modello che può essere testato anche qui. Certo, la vicina confederazione pretende confini sicuri, anche se poi alla fine lascia le maglie un po’ lasche, ben sapendo che nessun muro, nessuna barriera potrà fermare le cose. I demagoghi sono attivi anche lì, ma al dunque in chi governa prevale lo spirito pragmatico. Importante è filtrare bene e in tempi rapidi. Per chi ha diritto all’asilo, il dovere della miglior accoglienza è inderogabile. Il test ha investito poco più di 400 persone provenienti da diverse parti del mondo. Il numero può sembrare limitato. In cambio il test è pienamente riuscito.
L’idea è di rinunciare ai centri d’accoglienza temporanea, sparsi a casaccio sul territorio, che dovrebbero farsi carico di aggregati umani provvisori, manchevoli di tutto, difficili da governare, socialmente isolati e spesso affidati a gestori improvvisati. In loro luogo, su base volontaria e con il supporto della mano pubblica, saranno le famiglie a provvedere a integrare gli ospiti entro il loro tessuto di relazioni. L’accoglienza investe direttamente i cittadini, non è più delegata e ghettizzata. Ciò esercita un duplice ruolo di facilitazione diretta e di reciproca formazione alla convivenza, a una cittadinanza attiva sia in chi ospita che in chi è ospitato. Anche il carico di responsabilità è reciproco. Stato centrale e cantoni hanno la mano leggera: ma quella mano si sente, grazie al coordinamento tra i vari gradi di autorità e l’agenzia che si occupa dei rifugiati.
Le cose potrebbero andare a finire così. Il diffidente signor Bernasconi di Locarno non si sentirà insicuro se il vicino di casa, il più liberale signor Franscini, ospita un nigeriano. Se lui non ha paura e può fidarsi, anche Bernasconi può non avere paura e fidarsi, e magari in futuro ospitare per qualche tempo una coppia di siriani in fuga da Assad e dai fanatici dell’Isis. I costi per la comunità si ridurrebbero, mentre crescerebbero i vantaggi in termini di integrazione e, in prospettiva, di inserimento produttivo. E agli agenti politici della paura verrebbe tagliata l’erba sotto i piedi.
Chissà che a qualcuno non venga voglia di pensarci.
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